Vedi tutti

Alexander Wang merita davvero un comeback?

Come al solito, l’industria della moda ha la memoria corta

Alexander Wang merita davvero un comeback? Come al solito, l’industria della moda ha la memoria corta

Lo scorso 19 aprile, Alexander Wang è tornato a sfilare a Los Angeles con uno show-kolossal ambientato nella Chinatown della capitale californiana, aperto al pubblico, durante il quale il designer non ha concesso interviste alla stampa uscendo sulle scene solo per un inchino alla fine dello show. Ecco come Vogue ha descritto il momento: «Wang è uscito per inchinarsi alla fine dello show […]. La folla ha esultato, i cellulari erano protesi verso di lui e, per un momento, ci si è scordati del passato. Potremo continuare a scordarcene? Difficile da dire». E se la folla che si era presentata all’evento, intitolato Fortune City, si era dimostrata numerosa ed entusiasta (a prescindere da tutto, l’evento sembrava molto bello) le celebrity presenti sono state diverse dagli A-Listers che di solito si presentano alle fashion week: eccetto Gunna e Peggy Gou, che è un po’ un regular delle sfilate più importanti del mondo; c’erano Coi Leray, cantante hip-hop da sei milioni di follower; la magnate del brand Baby Phat, Kimora Lee Simmons; due protagoniste de The Real Housewives of Beverly Hills, Lisa Rinna ed Erika Jayne; la rapper coreana CL; Chloe Cherry di Euphoria e il tiktoker Noah Beck. In passerella invece, tra le altre modelle-star, hanno sfilato Adriana Lima e Alessandra Ambrosio. È chiaro che la lista di queste celebrity, tutte detentrici di un following enorme, sono più famose negli USA che altrove – a riflettere il focus di Wang sui suoi nuovi mercati “forti”: la Cina e gli Stati Uniti, che stanno rifondando il potere che aveva perso. 

La stampa “ufficiale” di Vogue, Business of Fashion e WWD era presente all’evento, anche se i giornalisti sono stati tenuti fuori dall’afterparty dello show dove le fotografie non erano permesse. Durante il festival non è stato servito alcol ma innocuo boba tea, cosa insolita dato che gli afterparty per cui Wang era diventato famoso a New York avevano una componente etilica abbastanza notevole - ma ovviamente i media non erano ammessi all’afterparty tenutosi nel vicino locale General Lee’s dunque non si sa se la virtuosa astensione dall’alcol sia effettivamente durata per tutta la sera. Secondo alcune malelingue, invece, l’evento era aperto al pubblico per coprire proprio la mancanza di grandi celebrity e personalità della moda mentre altri utenti Twitter, vedendo come il designer stesse insistendo sul suo heritage cinese e sulla community di Chinatown, hanno affermato che Wang abbia voluto utilizzare lo slancio del movimento #StopAsianHate e lo hanno accusato di utilizzare proprio la community asiatica come copertura per redimersi agli occhi del pubblico.

I vari giornalisti presenti, comunque, non si sono sbilanciati troppo nei propri resoconti della serata descrivendo esattamente i fatti come si sono svolti ma lesinando su aggettivi e commenti all’enorme elefante nella stanza: le accuse di molestie sessuali rivolte a Wang nel 2020. La questione è interessante perché si è risolta con un settlement privato, un post di pubbliche scuse e una pacca sulla spalla per Wang, che avrà di certo risarcito gli 11 uomini che lo avevano accusato di molestie abbastanza pesanti senza che nessun dettaglio della faccenda finisse agli atti di un processo. Non di meno, l’elefante era lì. La presenza di questo “elefante” fa riflettere sulla cecità selettiva della cancel culture nella moda: Bruce Weber e Terry Richardson, dopo le accuse di molestie, hanno praticamente smesso di lavorare (Weber ha girato un film, pubblicato un libro e scattato una cover di Icon Magazine l’anno scorso, ma i cancelli di Condè Nast rimangono chiusi per lui); Gosha Rubchinskiy, le cui molestie erano assai più gravi oltre che comprovate, ha visto la sua carriera del tutto obliterata e ha fondato un nuovo brand, Rassvet, di cui francamente si sente parlare pochissimo. Il ritorno di Wang però è avvenuto in grande stile, tutti ne hanno parlato e nessuno ha trovato minimamente sospetto il rifiuto da parte del designer di affrontare la questione.

Emblematica è stata Kim Kardashian che all’evento non si è presentata pur vivendo a Los Angeles (difficile che qualcuno non abbia invitato lei o un qualche membro della sua famiglia) ma ha pubblicato due Stories low-effort taggando Wang e utilizzando una foto stampa con un watermark di Getty Images ben visibile - praticamente un compitino svolto solo per ottenere una sufficienza. Altre celebrity e magazine hanno dato media coverage allo show provando come potevano a dribblare intorno alla questione (un capolavoro l’incipit del pezzo del Miami Herald: «After taking a break amid sexual assault allegations…») ma si può dire che nessun player dell’industria abbia effettivamente espresso preoccupazione o mosso critiche a Wang – riluttanti complici nel lento ma costante insabbiamento della vicenda. In Cina invece, dove l’opinione pubblica è molto sensibile alle accuse di molestie sessuali (vedi il caso di Kris Wu l’anno scorso), l’heritage asiatico del designer ha offuscato completamente i suoi problemi di condotta e il paese è diventato la nuova locomotiva di Alexander Wang – una locomotiva che basta a tenere il suo brand in corsa mentre Wang torna a bussare alla porta dei buyer americani e tra un po’, quasi di certo, di quelli europei. 

La nozione che si trae dall'intera vicenda è quella della completa impunità che vige nella moda per chiunque abbia abbastanza denaro e abbastanza conoscenze. La conveniente pratica del private settlement è la prassi che consente di risolvere tutto con relativa comodità, consentendo agli accusati di lavarsi la coscienza tenendo pulita la propria reputazione. È chiaramente giusto che nessuno venga pronunciato colpevole di un atto criminoso se la legge non lo ha stabilito prima – ma proprio questo meccanismo permette a molti predatori “illustri” di pagare il silenzio delle vittime e attendere a bordo piscina che il pubblico dimentichi. In un’epoca di valori urlati e sbandierati, di parole incoraggianti dai significati vaghi, di brand e di personalità che investono se stesse di un’importanza sociale che non hanno, di scrutinio pubblico e facili scandali, il vero scandalo è, come sempre, l’ipocrisia.