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Il paio di shorts che ha fatto crashare il sito di Tesla

Ancora una volta Musk dimostra che tutto si può vendere purché sia memabile

Il paio di shorts che ha fatto crashare il sito di Tesla Ancora una volta Musk dimostra che tutto si può vendere purché sia memabile

Sono le ore 10:01 del 5 luglio 2020. Elon Musk pubblica un tweet destinato ai suoi 36,6 milioni di follower per presentare i Tesla Short Shorts, un paio di pantaloncini sportivi color rosso satinato con la scritta S3XY sul lato posteriore e un logo dorato di Tesla ricamato sul bordo inferiore della coscia sinistra. Il prezzo degli shorts, dichiarato in un successivo tweet il minuto dopo, è di 69,420 dollari – due numeri sul cui significato scherzoso possono esistere pochi dubbi. Tre minuti dopo, un nuovo tweet di Musk: «Maledizione, abbiamo rotto il sito». Sette minuti dopo, i Tesla Short Shorts sono già out of stock

Se un prodotto del genere ha avuto tanto successo, non è di certo per motivi come iconicità ed esclusività. Musk ha venduto questi shorts, come anni fa vendette i suoi pseudo-lanciafiamme, capitalizzando sulla stessa assurdità della propria offerta. In altre parole, ogni dettaglio della loro release (come anche ogni dettaglio della vita pubblica di Musk, dalle sue interviste fuori di testa fino al nome con cui suo figlio è stato battezzato) è così stravagante e, dal punto di vista della cultura pop di internet, così simile a un meme che l’esperienza stessa dell’acquisto diventa un divertimento e fa diventare il compratore parte dello scherzo generale. Lo stesso price point del prodotto, che normalmente costerebbe tra i 15€ e i 30€, fa parte della battuta – battuta apparentemente così riuscita da farli andare in sold-out nel giro di qualche minuto. Il loro price point, come ipotizzato da diversi giornalisti americani, era una frecciata agli investitori che avevano scommesso contro Tesla oltre che un rimando al prezzo delle azioni da lui suggerito quando, due anni fa, considerò di far quotare in borsa la propria azienda.

Elon Musk è un esempio perfetto di come, nella internet culture di oggi, owner e brand possano idealmente sovrapporsi. I Tesla Shorts, come anche il Cybertruck e il lanciafiamme, sono più giocattoli molto costosi che prodotti commerciali: la sopravvivenza di Tesla e della sua sister company chiamata, ancora una volta con molto umorismo, The Boring Company non si basa di certo sulla vendita di merch. È ovvio che i vari business di Musk non siano tutti basati sull’assurdità: il motivo per cui il miliardario può permettersi scherzi del genere è proprio perché il suo core-business è gestito con gelido (se non cinico) spirito imprenditoriale. Ma queste stravaganze danno a Tesla e a Musk qualcosa di molto più prezioso di dividendi e revenue annuali: la reputazione. Un tipo di pubblicità molto più durevole di qualunque campagna marketing che ha reso il valore del brand dipendente dall’immagine del suo proprietario. Come Peter Cohan scrive su Forbes:

«Se il consiglio di amministrazione di Tesla dovesse rimpiazzare Musk con un executive tradizionale, le sue azioni crollerebbero. In realtà se Tesla toccasse semplicemente il suo analyst target price le sue azioni scenderebbero del 47%. […] Chi compra azioni Tesla lo fa per ragioni che non riguardano la sua performance finanziaria o il suo futuro».

Ma tutti quei prodotti sono frammenti dell’identità pubblica di Musk, che fa parlare di sé costantemente ora supportando i desideri di presidenza di Kanye West, ora apparendo come se stesso in Iron-Man 2 e Rick & Morty. Oltre alle sue lamentele sulle misure di lockdown, da lui definite “fasciste”, e i suoi occasionali rant su Twitter, si può dire che quasi nulla di quello che Musk faccia in pubblico possieda una parvenza di serietà – ed è proprio questo che gli permette di vendere un’intera linea di shorts a più del doppio del loro prezzo di mercato nel giro di sette minuti netti. Grazie a Musk, l’arte del marketing e quella del trolling sono diventate una cosa sola: il più venduto non è più il prodotto migliore, ma il più meme-worthy.