
Perché i rapper cantano di Dior, Prada e Margiela? Cultura o pubblicità?
Raf degli A$AP Mob non è solo una traccia ma un’ode a Raf Simons, con A$AP Rocky nel ruolo di fanboy dichiarato. L’ennesima prova che tra musica e moda oggi i confini non esistono più. Se osserviamo i linguaggi musicali degli ultimi decenni questo rapporto appare quasi simbiotico: non solo nel modo in cui gli artisti scelgono di presentarsi attraverso abiti e costumi, ma anchenella capacità di trasformare un brand in parte integrante del racconto musicale. È il caso di moltissime canzoni, dal rap più iconico al nuovo R&B, che hanno reso i brand parte dell’immaginario culturale contemporaneo, andando oltre la semplice citazione e diventando strumenti di identità, aspirazione e riconoscimento collettivo.
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Anche le subculture con il tempo smettono di rimanere nascoste e diventano manifesto pubblico, atterrando nell'arte, nella moda e nella musica. Pensiamo al lavoro di Jean-Michel Basquiat che sintetizzò questo passaggio mescolando graffitismo, neo-espressionismo e pop art. Oppure ai gruppi americani come il Wu-Tang Clan che, partendo dal basso, hanno reso universale un’estetica che prima parlava solo a pochi, e Run D.M.C, gruppo nato nel 1983 che è passato alla storia per aver firmato un accordo di un milione di dollari con adidas. Tutto è nato quando, nel 1986, scrissero My Adidas dopo aver visto i fan imitare il loro look. La canzone ha reso le Superstar in un simbolo culturale - tanto che durante i concerti, quando i Run D.M.C. cantavano My Adidas, il pubblico intero si levava le scarpa e le sventolava al cielo per dimostrare la loro appartenenza alla community del gruppo. Fu il primo endorsement ufficiale tra un gruppo hip-hop e un marchio di sneaker, aprendo la strada a tutte le collaborazioni tra rapper e brand di moda negli anni successivi.
Ma se da un lato queste operazioni commerciali hanno promosso il rap nella pop culture, dall'altro hanno prodotto un vero shock culturale: da un lato contribuendo alla gentrificazione di quartieri popolari di New York, dall’altro spingendo ideali controculturali all’interno del capitalismo sfrenato della fine anni ’80 e dell’inizio dei ’90, quello tipico da distretto finanziario, che sfrutta simbologie e racconti per generare potere. In questo processo, anche i brand, da giganti patinati e irraggiungibili, diventano strumenti per il rap, l’hip-hop e l’arte: un modo per appropriarsi - proprio come aveva fatto la pop art - di segni di potere e trasformarli in narrazione personale. Da critica si passa ad avvicinamento, da opposizione a collaborazione. Fino al momento in cui hip-hop, rap e R&B iniziano a usare i brand non solo nei testi, ma persino come titoli di canzoni, ancora prima di indossarli.
Anni '80 e '90 a parte, la musica contemporanea e non solo rap pullula di esempi del genere, da citazioni velate a titoli interi dedicati ai brand. Pop Smoke in Dior trasforma il brand in un mantra di potere e desiderio, quasi sinonimo della sua ascesa. In Chanel, Frank Ocean invece richiama il logo della maison con le due C specchiate come metafora di un’attitudine fluida. Charli XCX in Prada adotta il nome del brand come immagine immediata di coolness. Maison Margiela di DJ Esco con Future celebra l’iconico brand d’avanguardia come codice della scena trap e rap — basti pensare a Kanye West e alla maschera integrale del suo tour 2013, gesto che metteva in parallelo l’anonimato dei clan del rap con quello imposto da Martin Margiela in favore del collettivo. Yung Beef con JW Anderson conferma come la moda sia ormai un repertorio condiviso tra generi e generazioni. A completare il quadro, CDG di Samantha e Accappatoi Versace di Ntò portano il lusso dentro un immaginario più quotidiano e personale. Che si tratti di un reale sintomo di appartenenza o di mera pubblicità, di voglia di farsi notare dai grandi brand e di venire invitati alle sfilate o meno, ormai la moda non può più fare a meno della musica - e viceversa.














































