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Lo spaghetti-western di Louis Vuitton

Pharrell firma una collezione vivida, pop e facilmente commestibile

Lo spaghetti-western di Louis Vuitton Pharrell firma una collezione vivida, pop e facilmente commestibile

Perché usare, nel titolo, l’espressione “spaghetti-western” per definire l’ultimo sforzo di Pharrell per Louis Vuitton? Perché il nome definisce quei film ambientati nel West americano ma prodotti in Europa, proprio come i pezzi di questa collezione fabbricati tra la Francia e l'Italia, con l’unica differenza che quei film nascevano per infrangere il rassicurante mito del Far West proposto da Hollywood e raccontare il lato brutto, sporco e cattivo di quell’epoca. Ciò che ha fatto Pharrell è stato invece provare a riscrivere o sovrascrivere quel mito, riappropriandosi di un immaginario che, visto in retrospettiva, è alquanto colonialista e razzista: nei classici western, in effetti, così come nella realtà storica, cowboy e indiani erano nemici, gli uni invadevano il territorio degli altri, avviando un difficilissimo processo di integrazione che oggi è ancora lontano da essere risolto. Per redimere la figura del cowboy e potersi prendere la libertà di rimescolare i loro stilemi senza urtare la sensibilità di nessuno, Pharrell ha affidato la creazione di accessori, la colonna sonora e il set design dello show a diversi creativi nativi americani facendo proseguire quella tradizione di collaborazione che già Virgil Abloh aveva avviato anni fa. La scelta ha fatto della collezione un blockbuster denso e vitale, ricco di dettagli ma anche facilmente commestibile per un'audience da abbagliare tanto con la magnificenza e il lusso dei dettagli più minuti (particolarmente belli i dettagli in turchese creati da artigiani Dakota e Lakota) quanto con la relativa accessibilità delle silhouette tipiche del workwear e della vivace sartoria da rodeo.

L’immaginario americano secondo Pharrell

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Lo stile della collezione dimostra, al di là degli alti valori di produzione del team di Vuitton (che non si è affatto risparmiato tra ricami, motivi floreali, lavorazioni jacquard, pellami decorati a sbalzo, materiali e via dicendo) quanto Pharrell sia in grado, creativamente parlando, di scegliere e seguire un tema – e di farlo con un candore e ingenuità artistici ma anche una generosità immaginifica che oggi, semplicemente, non si vedono più. E questo perché la moda di Louis Vuitton dev’essere, oltre che esteticamente bella e opulenta, tanto pop quanto lo spettacolo con cui è presentata: un approccio che ha meno a che fare con la superficialità che con la spensieratezza. E questo è anche il motivo per cui non ha molto senso porre la collezione di Pharrell sotto la lente analitica dell’analisi storico-sociale, per quello ci sono i film di Scorsese e i brand (più o meno falsamente) engagé nel correggere o denunciare i molti torti della storia. Il punto, qui, è l’esuberanza e la sovrabbondanza quasi barocca di colori, decorazioni, borchie di turchese, fasti di lane e pellame, di dettagli rigogliosamente brandizzati, di gioielli e anche il ritorno di un occhiale storico che si chiama, letteralmente, Millionaire. Proprio come lo spaghetti-western si concentrava più sulla resa estetica e sulla sensualità tattile e visiva della narrazione  e meno sulla costruzione etica di una mitologia nazionale, anche questa collezione vuole elaborare un'estetica, eseguire un tema senza sprofondare nel ragionamento e nella problematizzazione - un tipo di vivacità che oggi si perde facilmente tra concept intellettualistici e diktat dei team commerciali che, da Louis Vuitton, esistono in una feconda armonia con quelli creativi.

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In questo senso, l’esecuzione della collezione è praticamente priva di sbavature – certo, la scelta del tema western, che è sempre un classico, riporta alla mente reminiscenze di numerosi altri designer d’Oltreoceano che l’hanno frequentato, da Emily Bode a Rhuigi Villaseñor, passando per i gemelli Caten, Tom Ford e persino il francesissimo Hedi Slimane che con i drugstore cowboy ha sempre pesantemente flirtato. Ma come era già successo con i dandy militareschi del primo show e poi con i marinai anni ’50 della seconda, esiste una profonda coerenza di fondo che è imparentata, in qualche modo, con il florido, tondo immaginario a stelle e strisce di Norman Rockwell nel suo evocare un America proba e rubiconda, quasi idealizzata, e soprattutto assai lontana dal paese culturalmente dilaniato che è oggi. La rielaborazione dell'estetica americana, che è dopo tutto e storicamente un'estetica workwear, si accorda anche bene con l'enfasi sul prodotto che vige in questi anni nella moda e che porta all'adozione assai diffusa di quelle silhouette senza tempo, classiche ma eleganti e oggi lette come alternativa alla formalità tradizionale, di cui brand come Carhartt WIP, Levi's, Dickies, Woolrich e via dicendo sono stati i fondamentali pioneri e che ora si trova elevata alla potenza del lusso attraverso l'intero scacchiere dell'industria della moda.

La collaborazione con Timberland

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Immaginare un’America pacificata e sana, dove tutte le culture e i codici stilistici e sociali si mescolano rendendo il workwear opulento quanto la sartoria e la sartoria accessibile quanto il workwear, significa anche ripensare i capisaldi di quelle icone del guardaroba hip-hop attraverso il filtro del lusso pop di Louis Vuitton. Ecco dunque spiegato il motivo dietro la collaborazione con Timberland che molto ha fatto discutere (e che farà esplodere le vendite del classico Yellow Boot) e ha visto i popolarissimi modelli elevati da costruzioni in nubuck, monogrammi impressi nella pelle e in alcuni casi anche occhielli e hardware metallico d’oro con finiture in pelle. In tutti i modelli, le proporzioni appaiono espanse (secondo la press release del 15%) per quel classico effetto chunky che ancora va forte per il footwear in opposizione al trend della scarpa bassa e piatto che altri  brand hanno abbracciato. Proprio questo stivale, oltre che con la sua insistente presenza, funge da raccordo ideale tra i diversi temi che lo show prova a tenere insieme: da un lato l’insistenza sul workwear che è una categoria commercialmente di successo oggi ma comunque facilmente apprezzata da tutti i tipi di clientela pensabile; dall’altra lo status iconico che il classico stivale Timberland possiede un po’ in tutto il mondo occidentale e specialmente in America dove è un vero must-have del guardaroba maschile tradizionalmente inteso insieme ai jeans e alle flanelle. La collaborazione promette di essere una prosecuzione di quel tipo di collaborazioni che in passato Abloh aveva avviato con Nike, elevando con materiali e dettagli molto lussuosi delle silhouette dalla popolarità assoluta come le Air Force 1. Lo spirito dell’operazione è il medesimo, mentre il rumore che ha suscitato ha oscurato il fatto che nell’intera collezione del brand non era presente nemmeno una sneaker – il che ci dà la misura di come il vento stia cambiando per quanto riguarda il trend di footwear.

I trend che la sfilata alimenterà

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Non si vive di soli cowboy. Se la sartoria alquanto affilata dello show ha premuto l’acceleratore sull’immaginario country contemporaneo, a cui non  manca mai un tocco di nostalgia camp che adesso potremmo anche derubricare come “swagger”, la sfilata era punteggiata da momenti di continuità con quelle silhouette più estranee ai classici rodeo texani. Nello specifico, è interessante notare la prosecuzione del trend della giacca priva di colletto che avvicinano, curiosamente, le classiche costruzioni del workwear agli assai francesi modelli della giacca in tweed femminile. Medesimo discorso si può fare per l’abbondanza di cardigan girocollo – un tipo di knitwear di cui tutti parleranno fra due mesi e che vediamo da numerose stagioni sulle passerelle di Prada e abbiamo anche visto da Gucci e Celine, giusto per fare due esempi. Quando il trend esploderà alla luce del sole (perché lo farà) Pharrell sarà considerato uno dei suoi fautori più importanti. Si può inoltre notare l’insistenza di Pharrell sui pantaloni bootcut, ampi e svasati, che creano una forma più longilinea e affusolata nella gamba dei pantaloni, che coesiste con i classici double-knee, in aperto contrasto con il ritorno del pantalone slim-fit che ha fatto invece capolino a Milano.

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Altro macro-trend rintracciabile nello show sono il ritorno delle pellicce da uomo, presenti qui in diverse iterazioni. Perché diciamo che è importante? Perché uno dei look, quello che non a caso presentava il più lungo e opulento cappotto di pelliccia dell’intera collezione, era indossato da Will Lemay, iconico top model Y2K il cui look più assolutamente memorabile era stato proprio un cappotto di pelliccia indossato senza niente sotto e visto nella collezione FW01 di Sean John, ovvero il brand di Sean Combs, in arte P. Diddy, che è un altro mogul della musica presentato alla moda, con un anticipo di vent’anni su Pharrell. Una citazione davvero raffinata che dev’essere stata posta lì non solo come throwback virale ma anche per riportare l’attenzione sull’importanza che le pellicce da uomo hanno avuto nell’iconografia hip-hop ma anche sulla popolarità assoluta che hanno avuto in questa stagione e probabilmente l’avranno la prossima.