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Nel 2013 la moda era un circo. E adesso?

L’eterno ritorno della discordia

Nel 2013 la moda era un circo. E adesso? L’eterno ritorno della discordia

Nel 2013 la giornalista di moda Suzy Menkes pubblicava, nella sezione Style del New York Times, un articolo che già nel titolo mirava al recupero dell’esercizio del pensiero critico: in The Circus of Fashion la Menkes, contrapponendo l’immagine del pavone a suo agio nell’esibizione di un piumaggio vistosamente variopinto, a quella del corvo, perennemente aggrottato nella riservatezza del suo nero,  si faceva portavoce di quello scombussolamento mediatico che ha visto la contrapposizione fra blogger e giornalisti. E che oggi, come una ferita aperta nella coscienza collettiva di intellettuali, media e populisti, continua a suscitare critiche. Siamo negli anni in cui le Doppie Pagine di Anna Piaggi muoiono di morte naturale, Chiara Ferragni inizia a progettare i tasselli del suo impero mediatico a partire dalla tastiera del Wordpress del suo blog, The Blonde Salad, o Bryanboy decide che sia giusto sponsorizzare dei prodotti di Marc Jacobs perché ben graditi. Colpa della fama o “più accuratamente del mondo della moda e di quel circo composto da celebrities famose per essere famose. Sono conosciuti per le loro pagine Facebook, i loro blog e per il fatto che il fotografo Scott Schuman li ha immortalati sul suo sito The Sartorialist” incalza Suzy Menkes. L’editoria per prima, pur riservandosi una dose di snobismo salvavita, aveva intuito la portata rivoluzionaria del digitale, provando persino a traslare i codici della carta stampata nel linguaggio macina like del web e dei social. I blogger, però, intuiscono che un’immagine curata risulta di gran lunga più leggibile e comprensibile di una parola sedimentata nel web: alcuni cambiano pelle e diventano influencer, trovando in Instagram il perfetto palcoscenico su cui esibire filtri, sponsorizzazioni e adv occulte.

Le sfilate di moda, nell’analisi condotta da Suzy Menkes, sono diventate degli zoo per due ordini di motivi: in primis parte della colpa è da attribuire “alla folla di esibizionisti spasmodici di essere scelti dai fotografi”, mentre il resto della responsabilità è da scaricare “al modo in cui i brand, nel tentativo di recuperare il controllo perduto a causa dell’evoluzione degli ecosistemi multimediali, sono entrati in gioco”. Ecosistemi che, se con i blog e il proto Instagram avevano avviato un processo di delocalizzazione dell’azione da dentro a fuori allo show, approdano ad una completa democratizzazione coinvolgendo in toto le piattaforme social: tutti parlano di moda. Dai fit check ai get ready with me di TikTok fino ai contenuti di natura informativa creati dai profili di editor e giornalisti di moda, il peso è pressoché identico con l’aggravante che, per chi tenta di costruirsi una carriera nell’editoria di moda, c’è il rischio di scontrarsi con classismo e precariato a lungo termine. Posto che l’ago della bilancia, in termini di potere decisionale e mediatico, si è spostato dalle riviste specializzate ai contenuti autoprodotti dai brand di lusso, va da sé che lo spazio riservato alla critica di moda è diventato pressoché inesistente: chi ne ha le competenze, si riguarda bene dalla possibilità di parlare di moda in un determinato modo perché teme delle ripercussioni a livello di immagine e di relazioni pubbliche con le maison. Fare critica di moda, d’altronde, vuol dire affidare alla parola scritta il compito di rintracciare sentieri semantici che legano l’etichetta di composizione di un capo alla sua esegesi interdisciplinare - quanto si sposa con la moda nella sua forma di entertainment allo stato puro?  

@bellagerard Wait til the end Editors that freelance and influence on the side are industry Hannah Montanas for real @Belle Bakst | NYC Shopping #editor #fashioneditor #nyclife original sound - Bella Gerard

Questione di format probabilmente. Il 2023, però, ci ha insegnato che persino il lavoro dei direttori creativi, gli stessi mitizzati e messi alla dura prova dal consumismo di massa dell'industria degli anni ’90, potesse essere messo in discussione in tutto e per tutto da CEO e manager di cui della moda interessa relativamente poco. Che le campagne di moda, indifferentemente prodotte da un brand di lusso o da uno fast fashion, diventano problematiche quando si trovano a fare i conti con bias cognitivi, complottismo e analfabetismo funzionale. Che, in estrema sintesi, eravamo e siamo totalmente impreparati ad affrontare una crisi aziendale sul fronte dell’online. Figurarsi l’editoria: a maggio 2023 il gruppo Vice Media Group, valutato 5,7 miliardi di dollari nel 2017 e con un modello di business basato sulla libera fruizione di contenuti digitali e ricavi connessi al mercato pubblicitario, ha presentato istanza di fallimento. Highsnobiety, piattaforma mediatica tedesca fondata nel 2005 e acquisita da Zalando nel giugno del 2022, ha dichiarato a BoF di aver licenziato il 10% del proprio personalerazionalizzando la nostra struttura globale per allinearci con i cambiamenti in atto”. Un riallineamento che, qualche mese fa, ha colpito nuovamente il gruppo editoriale Condé Nast sotto forma di un licenziamento del 5% dei suoi dipendenti (circa 270 persone), principalmente provenienti dalla divisione video. “Sebbene i canali video in formato breve di Condé Nast abbiano contribuito a stimolare la crescita del pubblico, l’editore ha faticato a monetizzare il coinvolgimento. Vedendo un calo delle entrate pubblicitarie sulla stampa, negli ultimi dieci anni diverse pubblicazioni hanno cercato di diversificare i propri flussi di entrate, con titoli come GQ e Vogue che hanno investito in contenuti video e lanciato programmi di abbonamento” spiega BoF. 

Colpa delle metriche, ancora una volta — è tutta una questione di misure e pesi. L’eterna diatriba tra giornalisti e influencer ha trovato un’insolita chiave di lettura quando una critica di moda del calibro di Cathy Horyn, ingaggiata come modella da Balenciaga per la collezione SS24, è finita sotto ai riflettori dei media, al pari di Kim Kardashian nelle vesti di curator per la collezione SS23 di Dolce & Gabbana. Sebbene la prima si serva di giornali, penne e tastiere, mentre la seconda incarni alla perfezione lo switch da senior influencer a celebrity internazionale, la loro funzione è stata salvifica per brand e scenari diversi: metterli al riparo da una crisi. Fa strano, o forse andrebbe semplicemente inquadrato in questo tipo di ricostruzione, sentire dire da due direttori creativi come Stefano Gabbana e Domenico Dolce che “siamo stati gli unici a non lavorare con gli influencer, li abbiamo fatti sfilare ma non abbiamo mai pagato nessuno. Da un anno e mezzo abbiamo cambiato registro, siamo tornati a lavorare con maestri come Meisel e Klein e alcune modelle, a noi piace la moda, e chi più di loro può esprimere questo concetto? Il fotografo, come il giornalista, fa un mestiere per cui ha studiato, ha una cultura, si può avere un dialogo alla pari" hanno aggiunto prima del debutto del loro ultimo fashion show a Milano. Ma chi investe realmente oggi sulla qualità dell’informazione oltre a quella dei capi? Chi tra i brand, così ossessionati dall’accaparrarsi una copertura mediatica fatta di full look e red carpet, ha aperto le sue porte a critici di moda emergenti? Quale maison ha scelto di supportare un’accademia di moda o un ateneo nella strutturazione di un programma interdisciplinare incentrato sui fashion studies? 

La critica non mira all’engagement, né tantomeno al profitto. Non è una metrica né una performance, ha bisogno di tempo e soprattutto di spazio. Forse è il tempo di darglielo, senza cedere all’istinto di prendere le distanze da un processo evolutivo dei media di cui tutti sono stati responsabili e attori nel corso di questi dieci lunghi anni. Basterebbe partire con l’autocritica, per esempio. Ponderata, sensata, costruttiva a tal punto da rendersi conto che, quelle degli influencer e dei critici, sono due vocazioni completamente diverse. E che, senza vincitori né vinti, potrebbero ritrovarsi nella condizione di essere compagne di front row o di cella, incollate su un file Excel di un piano editoriale. Per provare a fare sistema, una volta per tutte, anche tra chi la moda la vuole raccontare a modo suo.