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Perché l'ultima campagna di Zara è un problema

Bisogna pensare due volte prima di premere quel "pubblica"

Perché l'ultima campagna di Zara è un problema Bisogna pensare due volte prima di premere quel pubblica

Nelle ultime ore #BoycottZara è stato l’hashtag virale sui principali social media, a seguito della diffusione della nuova campagna del colosso spagnolo del fast fashion intitolata The Jacket. Le immagini, scattate dal fotografo di moda Tim Walker, ritraggono la supermodella Kristen McMenamy su sfondo bianco, nel mezzo di un set composto da scatole, statue di gesso dagli arti mancanti e manichini avvolti in cellofan semi-trasparente e veli bianchi. Proprio in quei veli bianchi in molti hanno colto un parallelismo derisorio con le immagini devastanti provenienti da Gaza, dove quasi 18.000 persone sono state uccise nel corso della guerra tra Israele e Hamas e la campagna diffusa dal brand: i tessuti bianchi che ricoprono i manichini sembrerebbero ricordare i sudari tradizionali della religione islamica. 

Secondo un comunicato ufficiale divulgato dal brand, l’intento della campagna pubblicitaria della Collection 04_The Jacket di Zara Atelier era ri-elevare «i paradigmi del fashion design per reinventarli», ponendo l’accento sulla giacca, spaziando nelle tecniche sartoriali, i materiali utilizzati, la funzione e i dettagli. Ma il focus, nella percezione pubblica, è stato tutto sui manichini. L'artista palestinese Hazem Harb ha chiesto un boicottaggio globale per il marchio, affermando che utilizzare scene di morte e distruzione per capagne di moda è sia “sinistro che complice”. Le due medical influencer Noor Amra e Hina Cheema hanno criticato congiuntamente la campagna, accusando Zara di essere consapevole dell'impatto e del messaggio veicolato dalle immagini, mentre gli utenti hanno messo a confronto la campagna con le scene devastanti di Gaza, alimentando ulteriormente le critiche. L’idea creativa per The Jacket è stata concepita da Tim Walker e dal team a luglio, molto prima dello scoppio del conflitto, ma se da un lato il web si è scagliato in ipotesi al limite del cospirazionasmo, più che le intenzioni, sulle quali non abbiamo dati oggettivi per esprimerci e probabilmente mai li avremo, è innegabile che il tempismo della sua pubblicazione sia stato inopportuno.

Un dettaglio a forma di triangolo capovolto sullo sfondo ha ricordato a qualcuno la cartina geografica della Palestina antica, creando un'atmosfera ambigua appesantita dalle passate dichiarazioni di Vanessa Perilman, Head of Design di Zara, che nel 2021 pare avesse indirizzato parole d’odio al modello palestinese Qaher Harhash, in una conversazione social privata. Una chat che sarebbe stata poi diffusa e diventata presto virale, portando al lancio di una petizione su Change.org per richiedere il licenziamento di Perilman. Intanto, mentre l'altra metà del popolo social decanta la fine della libertà artistica, negando ogni associazione tra il concept creativo sviluppato da Walker e le immagini di Gaza. In risposta, il brand ha ritirato la campagna, dichiarando via Instagram che «sfortunatamente alcuni clienti si sono sentiti offesi da queste immagini, adesso rimosse, e hanno visto in esse qualcosa di molto lontano da quella che è stata l'intenzione quando sono state create. Il gruppo Zara si rammarica per l'incomprensione e riafferma il proprio profondo rispetto nei confronti di tutti». 

@etantebellecose Se giustifichiamo il brand o l’artista allora neghiamo una cosa fondamentale e cioè che le immagini hanno un potere evocativo simbolico fortissimo che viaggia anche su binari diversi da quelli cercati. Chi produce le immagini non può non tenere conto di questo dato. #arteemoda #zara #gaza #arte #fastfashion #moda Experience (Cover Ludovico Einaudi) - 北昼

Con modalità e tematiche completamente differenti, l’onda d’urto della recente controversia rieccheggia il dibattito dello scorso anno sulla campagna Balenciaga Objects con i suoi "pupazzi d'ispirazione BDMS" e le "false carte processuali" - rivelatesi poi vere - presenti invece in secondo piano sulle scrivanie nella campagna di lancio della collaborazione con adidas. Cioè che accomuna i due eventi, oltre la portata della polemica che hanno scatenato, è la negligenza che i brand dimostrano nella diffusione di produzione pubblicitarie globali. Per bocca del suo Presidente e CEO Francois-Henri Pinault, Balenciaga aveva fatto mea culpa, scegliendo di rivalutare il proprio modus operandi, supervisionando ulteriormente l'operato dei brand che compongono il gruppo Kering e assumendo nuove figure preposte a sorvegliare la giustezza dei messaggi veicolati. Tra queste, si annoverava un nuovo responsabile della «sicurezza del marchio», incaricato di esaminare le principali campagne pubblicitarie, metterle in discussione e valutare come potrebbero essere percepite e criticate dal pubblico globale. 

In un'epoca in cui il dilagare di fake news e contenuti AI Generated che difficilmente possiamo distinguere da quelli reali, la nuova sfida dei brand è riuscire ad avere il controllo non solo sulla diffusione dei propri contenuti ma anche dei vari messaggi che questi ultimi potrebbero evocare negli uditori di tutto il mondo e ai loro possibili travisamenti o interpretazioni soggettive. Nell’era dei social media e della pluralità delle prospettive, per Zara la data di creazione di un progetto non è più una scusa accettabile, soprattutto se le implicazioni di tale progetto sono traslate sul presente. Comunicare con il pubblico globale è una sfida titanica, soprattutto dal momento che la percezione di un’immagine per un’europeo potrebbe essere completamente differente rispetto a quella di chi vive in Medio Oriente, ma, dato il clima geo-politico odierno, risulta sempre più evidente l’esigenza di discutere, empatizzare, mettersi nei panni degli altri o comunque valutare, fino all'ultimo momento prima della pubblicazione, se una certa immagine possa suscitare associazioni offensive o sgradevoli. Come si è già visto in passato, questi passi falsi non rimangono mai fermi all'astratto piano della reputazione ma si traducono in milioni di euro di vendite che vengono irrimediabilmente perduti. E la storia insegna che è meglio prevenire che curare.