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Che cosa ne è stato del grunge?

Indagine su un trend al di sopra di ogni sospetto

Che cosa ne è stato del grunge? Indagine su un trend al di sopra di ogni sospetto
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Saint Laurent SS16
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Number (N)ine FW03 "Touch Me I'm Sick"
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In questi giorni, in seguito al successo di The Batman di Matt Reeves ai botteghini di tutto il mondo, Spotify ha registrato un enorme aumento del 1200% degli stream di Something in the Way dei Nirvana, canzone che fa parte della colonna sonora del film. Il fenomeno è abbastanza naturale in realtà, ma evidenzia comunque la profonda fascinazione che il mondo della cultura pop e il suo pubblico provano verso il grunge degli anni ’90. Tre settimane fa, tra l’altro, il genere grunge ha fatto parlare di sé quando a due giorni di distanza si è celebrato il 55esimo anniversario dalla nascita di Kurt Cobain ed è stata diffusa la notizia della morte di Mark Lanegan, leggendario pioniere del genere. Sempre durante le scorse settimane, nel corso del fashion month, la stampa di moda ha usato (e abusato) della parola grunge per riferirsi agli show di AC9, di Philosophy di Lorenzo Serafini, di Coach e anche di Louis Vuitton e Miu Miu. Persino Chiara Ferragni si è vista affibbiare l’epiteto di “grunge” per il semplice fatto di essersi presentata allo show di Balenciaga con uno spesso di strato di eyeliner e un trench oversize. E proprio come la stampa ha iniziato a usare quel termine come un generico portmanteau (secondo SkyTG24, ad esempio, stivali pitonati e un abito in pelle color cachi sarebbero grunge), le nuove generazioni su TikTok (dove l’hashtag “grunge” possiede 4,1 miliardi di views) hanno iniziato a identificare come “grunge” lo stile di qualunque subcultura, dai punk e i mall goth degli anni ’80 agli emo dei primi 2000 passando anche per lo stile dei famigerati metallari e degli hipster. Ma se tutto è grunge, allora niente è grunge.

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Questa desemantizzazione del concetto di grunge è il diretto risultato della mercificazione di un genere che, in origine, nasceva come disilluso, apatico e a tratti rabbioso rigetto delle convenzioni sociali a cavallo tra gli anni ’80 e ’90. Questo rigetto passava anche per il disagio provato di fronte alla popolarità: dopo l’enorme successo di Smells Like Teen Spirit su MTV, nel ’94, Cobain stesso spiegò a Rolling Stone come la canzone fosse una fonte di imbarazzo per lui, quasi come se il principale esponente di un movimento culturale assai più ampio si fosse scoperto appiattito e commercializzato in una hit che persino chi col grunge non aveva nulla a che fare amava e canticchiava ovunque. La popolarità di Smells Like Teen Spirit (che, tra l’altro, gli stessi Nirvana smisero di cantare nei propri concerti a un certo punto) fu solo l’inizio di una lenta transizione culturale: per prima cosa i Nirvana divennero l’unica band grunge esistente nella coscienza mainstream che cancellò via via i Pearl Jam, i Mudhoney, gli Alice in Chains e via dicendo; e in seguito l’assurda popolarità del loro merch portò il loro nome e il loro logo a diventare una delle grafiche più diffuse del mercato fast fashion di massa e non solo – ma portando anche una canzone come Smells Like Teen Spirit a diventare il primo video musicale anni ’90 a superare il miliardo di views su YouTube.

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Eppure nel corso del tempo il grunge vero e proprio è stato anche fonte di ispirazione per un manipolo di designer che ne hanno reinterpretato lo spirito con efficacia, anche se persino i più esperti non sono davvero riusciti a emanciparsi da una pedissequa imitazione dello stile personale di Kurt Cobain. Due celebri collezioni, la SS03 del Number (N)ine di Takahiro Miyashita e la SS16 di Saint Laurent, sono forse le più vicine all’effettivo stile grunge – che è poi riemerso in letture sempre parziali da parte di vari designer, tra cui anche Demna Gvasalia che nella FW19 di Vetements creò una replica perfetta del cardigan indossato da Kurt Cobain durante il leggendario concerto Unplugged.

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Dei molti designer che rifecero il grunge, oltre a Miyashita, forse Demna fu quello che si avvicinò di più a catturare la sardonica insouciance del frontman dei Nirvana mentre è noto che collezioni come la famosa “grunge collection” disegnata nel 1992 da Marc Jacobs per Perry Ellis venne disprezzata dagli stessi esponenti del movimento musicale. Nel 2010 Courtney Love raccontò a WWD: «Marc spedì a me e a Kurt la collezione grunge di Perry Ellis. Sai cosa ci facemmo? Bruciammo tutto. Eravamo due punk – non ci piacevano quel genere di cose». Salvo poi ritrattare dicendo che, anni dopo, ritrovando alcuni pezzi della collezione si era semi-pentita di quel gesto. «Quei pezzi facevano parte di me e di Kurt mentre vivevamo nella trincea e sopravvivevamo alla guerra. Semplicemente, non affrontavamo la vita».

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Ma allora cosa ne è stato del grunge? La rabbia di una generazione di musicisti è stata appiattita a semplice moodboard o il senso di ribellione insito nel genere è sopravvissuto oltre i suoi esponenti? C’è da dire, in effetti, che le tattiche scioccanti impiegate da Kurt Cobain e compagnia appaiono meno ribelli adesso – se vedere Cobain vestito da donna faceva scandalo trent’anni fa oggi la fluidità è un requisito quasi obbligatorio per i brand di moda. E questo è solo un esempio. D’altro canto non si può nemmeno parlare di un distaccamento completo tra i due mondi considerati i molti e interessanti risultati che i designer nel tempo hanno ottenuto. È chiaro che qualcosa, nel vocabolario visivo del grunge, parla ancora al pubblico e alle nuove generazioni. Il nodo è dunque di una natura più astratta: il grunge ha un’estetica così facile da ricopiare proprio perché i suoi esponenti non s’interessavano dell’estetica – il loro era il fascino degli emarginati e degli esclusi, che non avrebbero mai aderito al meccanismo di validazione psicologica alla base dell’intero sistema-moda. 

Il conflitto è dunque valoriale e contrappone, da un lato, il desiderio di attingere alla edginess del genere grunge per fini commerciali e, dall’altro, la dichiarata anti-commercialità del genere stesso. Un paradosso che, al suo interno, la moda vive usando parole come “disruptive”, “revolutionary”, “transgressive” e “anarchic” ma specificando un minuto più tardi di non propugnare la ribellione vera, figurarsi, ma solo la generica patina di coolness che a essa si associa. Un paradosso che, ad esempio, si esprime nella vendita di t-shirt che riproducono il merch dei Nirvana a prezzi astronomici e che Isaac L. Davis ha descritto in un articolo su Archive PDF parlando della collezione grunge di Perry Ellis: 

«La collezione mancava degli elementi sovversivi del grunge, in particolare la sfida delle norme di genere, e la volontà di essere scioccante. […] Ciò che rendeva lo stile grunge così potente all'inizio era la sua opposizione alle tradizionali norme di genere americane e ai cicli capitalistici di consumo. Al posto di questi concetti tradizionali americani, lo stile associato al grunge offriva il do-it-yourself, capi riciclati insieme a un completo rifiuto delle tradizionali norme di genere. In questo modo, la sfilata […] si dimostra un eccellente esempio di ciò che di solito accade quando i designer si appropriano di stili ed estetiche di varie culture. Il designer copia le forme della sottocultura da cui sta prendendo idee, senza effettivamente catturarne l'essenza».