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La redenzione definitiva del corsetto

Da Margiela a Sanremo

La redenzione definitiva del corsetto Da Margiela a Sanremo

L’anno scorso, sempre nei giorni del Festival di Sanremo, avevamo commentato il piccolo boom dei corsetti da uomo visto sulle passerelle della fashion week e poi portato da Blanco sul palco dell’Ariston. In quell’articolo notavamo come il boom di corsetti visti a cavallo tra le stagioni FW23 e SS24 avesse in realtà una base storica, essendo il classico bustino largamente impiegato da quei dandies inglesi che per primi concepirono l’idea di un personaggio pubblico collegato a un preciso stile personale e ad attitudini provocatorie. Ora però è passato un anno, discutere ancora della liceità del vestire fluido significa battere su un argomento che è stato esaminato (per non dire sviscerato) in ogni sua possibile angolatura e, francamente, ha anche un po’ stancato: la moda genderless o fluida che dir si voglia esiste e basta ed è anche normale ormai, o la si accetta o si è rimasti indietro. I corsetti hanno continuato ad apparire ai margini dell’immaginario collettivo, con poca frequenza ma in momenti rilevanti: l’incredibile show con cui Maison Margiela ha chiuso la Couture Week; il look di Mahmood sui Green Carpet nella serata appena precedente l’inizio del festival di Sanremo che proveniva da quella collezione; l’abito da sera di BigMama, sempre al Festival, disegnato da Lorenzo Seghezzi; gli abiti indossati nel corso della award season da Taylor Swift, Selena Gomez, Halle Bailey, Nicola Peltz, Blue Ivy Carter ma anche Kylie Jenner, Billie Eilish, Jennifer Lopez, Victoria Monet, Doja Cat. In tutti questi diversi casi possiamo certamente identificare un trend nell’ambito degli abiti da sera o da cerimonia che si dotano di busti allacciati, ma si ravvisa anche qualcos’altro: la semantica del corsetto è completamente cambiata, facendolo passare da antiquato simbolo di oppressione a un veicolo di ridiscussione del binarismo di genere oltre che a uno strumento espressivo sempre più emancipato dai suoi legami con l’erotismo.

Un paio d’anni fa, un film presentato a Cannes che ripercorreva alcuni episodi della vita della famosa principessa Sissi si chiamava proprio Corsage – titolo che faceva del corsetto o bustier degli abiti regali della protagonista, ossessivamente stretti nel tentativo di controllare la propria figura, il proprio respiro e i limiti della propria resistenza, la metafora di un’atmosfera in cui, per le donne, l’oppressione non era solo esterna ma spesso anche internalizzata. E sostanzialmente da quando esistono, i corsetti sono additati come simbolo di vanità e di abuso, sia di sé che di genere: il filosofo Jean-Jacques Rousseau se ne lamentava già a fine ‘700 sulle pagine del Lancet, a partire circa dal 1860 il panico morale contro i corsetti era su tutti i giornali nonostante fossero considerati un requisito imprescindibile del guardaroba femminile dall’intera società, furono poi le primissime femministe a farne un simbolo di oppressione – tanto che la famosa Bar Jacket di Dior, nel ’47, che prevedeva un vitino di vespa in cui una donna non poteva muoversi o lavorare, fu vista come un design molto reazionario all’inizio ma divenne comunque un successo mondiale, nè si può dimenticare come a Chanel si attribuisca il merito di aver liberato il guardaroba femminile dai corsetti quando è vero che un po’ tutta la moda della Belle Epoque aveva iniziato a farne lentamente a meno. In maniera forse banale, ciò che attraeva del corsetto era la sua capacità di "creare" l'impressione di magrezza e definire una silhouette - in un'epoca in cui l’idea di un allenamento volto a scolpire le forme fisiche (forme che in pubblico non si vedevano quasi mai dal vivo) era qualcosa di vagamente estraneo. Quando il corsetto fu oggetto di dibattito, la divisione divenne culturale: chi li indossava ne difendeva l’uso, affermava di trovare piacere nell’indossarli e nella disciplina necessaria a tenerli e accusava i loro detrattori di non averne mai davvero indossati; chi li avversava li definiva un simbolo di oppressione. Alla fine, un po’ per comodità, un po’ per necessità storiche e un po’ perchè erano comunque appannaggio di un’aristocrazia in declino, il loro uso venne via via abbandonato quando il guardaroba femminile si fece più pratico e “borghese”.

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Nel frattempo i corsetti, insieme a tutta la biancheria intima femminile, data la loro capacità di creare silhouette innaturali ed esagerate, penetrarono nel reame delle fantasie erotiche di Sacher-Masoch, nella proto-pornografia nata insieme alle macchine fotografiche ai primi del ‘900, nelle perturbanti foto con cui l’autoproclamato “Pin-Up King” Irving Klaw agitava l’immaginazione dell’America benpensante degli anni ’50. Negli anni ‘70 Vivienne Westwood li fece riemergere ai tempi del negozio SEX e poi ancora e negli anni ’80 (rimane celebre quello presentato nel 1987 che ne fece un caposaldo del linguaggio del brand) quando, in Francia, sia Gaultier che Mugler li popolarizzarono: l’abbigliamento intimo diventava abbigliamento e basta, il sesso si poteva mettere in mostra per dominare con l’audacia un perbenismo ormai in decadenza ma che non venne mai davvero scacciato. Il corsetto non veniva normalizzato, solo sessualizzato in una maniera più socialmente accettabile: rimaneva comunque una specie di costume, romantico nel suo essere antiquato, bello perché evocativo di una qualche dimensione proibita - un feticcio, a tutti gli effetti. Qualche anno più avanti, per la sua SS95, Alexander McQueen portava il celebre Mr. Pearl in passerella più per scioccare che per rimettere in discussione le norme di genere e vent’anni più avanti, quando Miuccia Prada diede loro un ruolo centrale nella FW16 del suo brand, essi erano meno erotici che esotici – non erano però la normalità, non erano un pezzo di abbigliamento come un altro ma un elemento eccentrico, che serviva a far riflettere sui look e che riprendeva il tema di una collezione riguardante gli archetipi del womanswear e il loro generale ripensamento concettuale.

@zozoroe Reply to @zozoroe Uhm... OMG I’M NEVER TAKING THIS CORSET OFF #fyp #corsetchallenge #corset #YasClean #viral #tryonhaul #aprilfools Lacrimosa - Vienna Mozart Orchestra

Dopo il 2020, con l’esplosione di Bridgerton e il proliferare di estetiche ispirate a ogni singolo immaginario pre-esistente possibile è stato il momento del Regencycore e del riemergere dei corsetti - e qui andrebbe citato senza dubbio il lavoro di Dilara Fındıkoğlu. Con questo trend, e passando dalla realtà scenica a quella quotidiana, il corsetto è diventato quasi un accessorio romantico pensato, più che per costringere e contenere, per definire e sagomare senza compressioni, per creare una silhouette ed evocare una sorta di moderna fantasticheria al pari delle giacche d’ispirazione militare o dei jeans bootcut un po’ anni ’70. Il corsetto è in breve passato da malizioso simbolo di dimensioni proibite in un veicolo espressivo più puro: è questo l’uso che ne ha fatto John Galliano per il già celebre show di Margiela (anche se erano già tre collezioni che i corsetti apparivano nelle collezioni del brand e Galliano li usa da decenni) in cui il corsetto era sì un’evocazione storica, ma anche strumento artistico che deformava surrealmente le silhouette dei modelli e un elemento di layering.

Mahmood è stato la prima celebrity a indossare un look di quella collezione dopo la sfilata dando al suo outfit una dimensione queer ma senza quasi nulla di esplicitamente o esclusivamente sessuale; così come gli abiti di BigMama nelle prime due serate del festival, firmati dal designer Lorenzo Seghezzi il quale ha fatto del corsetto il perno di un intero linguaggio visuale che nelle sue ambizioni va molto oltre la banalità della suggestione erotica per ampliare il discorso al concetto stesso di queerness e all’eradicazione del binarismo dell’abbigliamento tradizionale. Il momento culturale pare propizio, in ogni caso, a questa risemantizzazione: su TikTok la #corsetchallenge ha fatto 690 milioni  di views soltanto a gennaio, stando a Vogue, e coinvolge un pubblico di tutti i generi e tipologie corporee - a dimostrazione che, se non altro, ciò che nell’Ottocento era un requisito sociale che ci si aspettava dalle donne si è trasformato in un elemento con cui giocare e fare quello che preferiamo fare con i vestiti: divertirci.