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Nell'attesa di Napoli

Un'esplosione turistica e culturale merito di una generazione di creativi costretti a partire

Nell'attesa di Napoli Un'esplosione turistica e culturale merito di una generazione di creativi costretti a partire
Fotografo
Michael Bruny

È buffo, a pensarci bene, che proprio mentre il Napoli vinceva il suo ultimo scudetto Maradoniano - e l’ultimo fino alla fine di questo campionato - nasceva la generazione delle persone destinate ad andare via da Napoli. I millennial, così come i membri della generazione appena prima di loro, emigrarono prima a Roma e poi a Milano, lasciando di fatto un buco di piccola e media borghesia in città, come racconta Cristiano De Majo nel suo libro Guarigione. Crescere a Napoli tra la fine degli anni ‘90 e l’inizio degli anni 2000 significava prima di tutto essere sicuri di lasciare quella che a ragione o a torto veniva considerata la città più bella del mondo, con la consapovolezza che Roma e Milano - le uniche due mete possibili - non avrebbero mai potuto competere nel cuore di chi partiva. 

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Esistono almeno 4 fasi nel periodo che separa quello scudetto nella stagione magica del 22/23: l’era di Bassolino, quella pre-Gomorra, quella post-Gomorra e quella dell’emersione della Nuova Napoli, che si fa pressapoco coincidere con la morte di Pino Daniele, avvenuta in uno strano gennaio 2015. Sono fasi in cui i ricordi dell’allora generazione creativa napoletana si mischiano tra loro: prima fallisce il Napoli (nel 2004), poi scoppia l’emergenza rifiuti (biennio 2007-2008), poi arrivano Saviano, Gomorra e Garrone a cambiare per sempre la narrativa cittadina: si pensava in peggio, mentre da quel peggio si è materializzata la miccia per l’esplosione del "brand napoli"

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Il libro che racconta meglio di ogni altro il periodo post-Gomorra/Nuova Napoli lo ha scritto Paolo Mossetti: giornalista e scrittore, autore di Appugrundisse, un saggio/memoir che racconta del ritorno dell’autore a Napoli in pieno lock-down, durante la cosiddetta contro-migrazione che ha riportato - non si sa ancora per quanto tempo - tantissimi lavoratori al Sud, alla ricerca del south working, circa 45 mila in tutto il sud italia, secondo i dati dello Svimez, con un potenziale di circa 100 mila lavoratori. Nel suo libro - il cui titolo è un mix tra l'appocundria di Pino Daniele e la Grundrisse, la più grande opera incompiuta di Karl Marx - non realizza solo una cronaca delle condizioni di Napoli, ma compie una vera e propria opera di racconta della città degli ultimi 10 anni, dal periodo Post-Gomorra ed emersione della “Nuova Napoli”.

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Se quello attuale può sembrare il più fulgido periodo della contemporaneità napoletana, beh, forse ci si dimentica del 2018. Con buona pace della incredibile stagione del Napoli calcio, eppur uno strumento di misurazione della salute cittadina impossibile da ignorare, il Covid ha interrotto - o per meglio dire messo in pausa - una espansione cittadina che non aveva eguali nella storia del capoluogo campano. Da LIBERATO fino all’Amica Geniale e Sorrentino, passando per l’esplosione del Napoli Sound moderno dei Nu Genea e della Periodica Records fino alla rinascita del Rap campano, arrivando a un boom turistico che ha cominciato quel processo cittadino di airbnbizzazione del centro storico napoletano ancora in atto. Se Roma non è stata costruita in un giorno, anche Napoli non poteva nascere dalle ceneri del Covid senza una radica incredibilmente resistente. Il libro di Mossetti si concentra, per stessa ammissione del suo autore in una intervista a Dario De Marco (altro validissimo autore napoletano): «La storia del XXI secolo, gli ultimi vent'anni dall'ingresso in Europa, la fine dei partiti novecenteschi, l'inizio del dominio del centrosinistra, con un particolare focus sul "post-Gomorra", cioè dagli anni in cui era esplosa una certa narrazione sensazionalistica a quelli dell'"essere napoletano è meraviglioso" trasformato in sticker pacchiano per il turismo low-cost e l'auto-convincimento di chi a Napoli è rimasto». 

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Chi è che è rimasto, però a Napoli? Non lo hanno fatto i Nu Genea, diventati i Nu Genea proprio lontani dalla loro città, che in più interviste hanno sottolineato come l’ispirazione più grande per raccontare la Nuova Napoli sia venuta proprio dal viverne fuori. Non lo ha fatto Saviano e neanche Sorrentino, così come Lettieri, passato per Roma prima di ritornare a Napoli con l’incredibile esperienza di LIBERATO. Non possiamo rispondere dello stesso LIBERATO o di Elena Ferrante, viste le identità nascoste, eppure entrambi hanno avuto una fortuna smodata proprio fuori dalla città prima di tornare in patria e diventare dei veri e propri cantori della stessa. Non lo ha fatto neanche De Magistris, per alcuni momenti il più illuminato dei sindaci napoletani, passato da Napoli solo per prendersi i (giusti) meriti dell’esplosione turistica della città. Anche Luchè o Clementino, che di Napoli avevano inventato il rap moderno, si sono trasferiti fuori, così come una intera classe creativa di fotografi, designer e giornalisti tornati poi per raccontare la rinascita della città. Chi c’è sempre stato, dopotutto, è chi ha aspettato questo momento per tutta una vita. Le stesse persone che hanno costruito le fondamenta narrative che tutto il mondo ha voluto poi raccontare.

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I protagonisti di Napoli Napoli Napoli di Brett LLoyd, chi ha vissuto le esperienze che hanno portato alla creazione di Mare Fuori, o ancora il tessuto sociale che ha costruito i mostri benevoli del Napoli TikTok. I cultori della rinascita culinaria napoletana, da Ciro Oliva a Sasa Giuliano, passando per Egidio Cerrone alla Masardona, un nuovo (e social) modo di intendere una tradizione che si stava accartocciando su se stessa. Chi è rimasto a Napoli non si è visto per un sacco di tempo, offuscato dal racconto che chi era andato via da Napoli - o chi a Napoli non ci era mai stato e aveva provato a raccontarla utilizzando sempre gli stessi stereotipi o luoghi comuni, che se però vengono ripetuti finiscono col diventare reali. 

In un reportage di Bagnoli - una delle più sconosciute e assurde storie moderne napoletane - sempre Cristiano De Majo scriveva che «Napoli non la capisce nessuno». E allora tutti hanno iniziato a provare a rappresentare la loro idea di Napoli, sicuri di poter essere visti. Si è generato un circuito virtuoso per cui i Napoletani che avevano dovuto lasciare la città sono tornati per rappresentarla, certi che avrebbero fatto fortuna in un modo o nell’altro, attraendo a loro volta altri napoletani che se ne erano andati (come detto all’inizio, erano davvero tanti) e forestieri certi di provare l'ebbrezza napoletana. Questo ci ha dato l’illusione che Napoli sia “esplosa” solo negli ultimi anni. Napoli in realtà si stava solo preparando, così come le strade della città, dopo la morte del loro Re, si sono preparate a quella cosa che dopo più di 30 anni sancisce l’emersione di una generazione che immagina un futuro non lontano da Napoli, per provare a essere la protagonista di quei racconti e di prodotti culturali che oggi piacciono a tutti.