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L'arte italiana su TikTok e il futuro del turismo tossico

Dall’ironia sui social alle iniziative pop azzardate, il fenomeno marketing che gioca con l’high-low

L'arte italiana su TikTok e il futuro del turismo tossico  Dall’ironia sui social alle iniziative pop azzardate, il fenomeno marketing che gioca con l’high-low

Banalizzazione della cultura o esaltazione in chiave pop? Il sottile confine che separa la percezione comune dei musei italiani sui social è stato, paradossalmente, il vero segreto del successo per le istituzioni artistiche. In Italia, l’account TikTok delle Gallerie degli Uffizi oggi conta più di 160mila follower, un traguardo raggiunto confidando nel tono essenzialmente ironico con cui il museo racconta le opere esposte nelle proprie stanze. Tra l’utilizzo di audio virali e il coinvolgimento di creator affermati, gli Uffizi sono diventati tra i preferiti dei giovani, al pari delle controparti internazionali come la Tate Gallery di Londra, diventata ancor più famosa grazie ai numerosi eventi serali, con DJ set ed esibizioni d’arte moderna, e il MET di New York, riconosciuto in tutto il mondo per l’annuale evento di Gala tenuto da Vogue. Ma se da un lato, in Italia, c’è chi ritiene che la resa popolare dei musei tramite i social rappresenti uno sfregio al patrimonio culturale del Paese, dall’altro c’è chi riconosce in questa una tangibile opportunità d’accesso per l’educazione all’arte e alla storia. In questi ultimi mesi abbiamo discusso approfonditamente di turismo tossico e di tattiche pubblicitarie azzardate - per ultima l’inaugurazione della pagina Instagram di Venere Italia, testimonial computerizzata istituita dal ministero del Turismo lo scorso aprile - purtroppo mal riuscite, ma l’esempio degli Uffizi è tutta un’altra storia. E i numeri lo dimostrano: nel 2022 hanno raggiunto più del doppio dei visitatori dell’anno precedente, per un totale di ben 4 milioni di visitatori - per paragone, la città di Milano conta 1,3 milioni di cittadini. Dietro alla pagina di TikTok del museo fiorentino c’era inizialmente Ilde Forgione, oggi esperta di comunicazione culturale e insegnante del settore per corsi master e Ted Talk con cui abbiamo avuto l’occasione di fare due chiacchiere per approfondire l'argomento. 

@uffizigalleries @Matto Varini ci insegna come prevenire tragedie di fronte alla #Medusa di #Caravaggio #uffizigalleries suono originale - uffizisocial

L’idea di approdare su TikTok con un account degli Uffizi è stata del direttore delle Gallerie fiorentine, Eike Dieter Schmidt, dopo aver osservato i dati scoraggianti della grande assenza da parte dei giovani nei musei«I più giovani non investono il tempo libero per visitare musei e monumenti, nonostante la possibilità di farlo gratuitamente fino ai 18 anni,» ci ha raccontato Forgione. Spinti dalla consapevolezza di dover parlare lo stesso linguaggio dei giovani per riuscire a suscitare il loro interesse, sotto la guida di Forgione e di un team d'esperti l’account degli Uffizi ha saputo seguire un «codice comunicativo» proprio della generazione a cui si voleva rivolgere. E quindi via a clip ridicole, filtri bizzarri, canzoni moderne ed idee brillanti per raccontare in modo originale la bellezza racchiusa nel museo. Questo nuovo metodo, sebbene per gli italiani rappresentasse inizialmente una maniera completamente inusuale di trattare l’arte, era già presente da tempo in diverse istituzioni museali del mondo - Forgione cita oltre al MET e agli Uffizi anche il Van Gogh Museum e il Rijksmuseum di Amsterdaml’Albertina di Vienna e persino il MArTa di Taranto - che hanno supportato a loro modo l’ingresso in campo di una comunicazione «nuova, che mira a coinvolgere e far sentire alle persone che il museo è qualcosa di vicino alla loro quotidianità,» e che, come tutte le novità, non è stata ben vista dagli esperti di settore«Bisogna pensare che la comunicazione funziona se centra il target di riferimento,» spiega Forgione. «Le critiche, anche a casa nostra, sono arrivate perlopiù dagli studiosi e dai critici dell’arte, cioè da parte di coloro che non sono il pubblico target delle campagne di comunicazione. […] L’apprezzamento c’è stato nel mondo della scuola, rispetto al quale ho personale esperienza di insegnanti, istituti ed enti che hanno promosso la conoscenza della storia dell’arte tramite la comunicazione social dei musei.» Ed ecco spiegato perché l’ironia ha funzionato: avvicina i meno appassionati all'arte, una materia storicamente condannata ad una narrativa dal ritmo alquanto formale e morigerata, e ne esplora i confini prendendosi gioco di chi quelle opere le tratta unicamente come cimeli. Scherzare sui Caravaggio e sui Botticelli riesce a sdrammatizzarne l’aspetto scolastico ed impegnativo, rendendoli temi piacevoli anche per chi, tra i banchi di scuola, preferirebbe chiacchierare col vicino. Forgione, che possiede un dottorato in diritto amministrativo, aggiunge inoltre che l’ingresso dell’arte sui social non è stato solo un modo per attirare più visitatori e maggiori profitti, ma un valore che rientra nel concetto stesso di democrazia«Avvicinare l’arte alle persone comuni deve essere prioritario per i musei, con una spinta verso la democratizzazione della cultura che risponde alle previsioni dell’art. 9 della nostra Costituzione,» spiega l’esperta. «Per stimolare la curiosità di chi, da solo, non si avvicinerebbe alla cultura “alta” dobbiamo evitare meccanismi di esclusione arrogante. Non dare per scontato che ogni persona che visita un museo o si imbatte nel profilo di un museo sia in grado di comprendere il linguaggio artistico e conosca la storia dell’arte.» 

 

«Non si tratta di banalizzare i concetti per renderli attraenti: si tratta di far ridere creando una community che comprende i riferimenti sottintesi coinvolgendo le persone in una comunità virtuale, perché la comunicazione è anche relazione e scambio. Tramite l’ironia si prova a coniugare in modo intelligente e divertente cultura alta e bassa, prendendo ispirazione da letteratura, storia, mitologia, ma accostandoli alle hit e ai trend del momento. […] Il contatto tra il mondo dell’arte e quello dei ragazzi qui deve necessariamente adottando il linguaggio proprio di quella generazione e ridefinendo la narrazione di temi complessi con modalità che vengono riconosciute come proprie dai fruitori della piattaforma. La comunicazione social si aggiunge allo sforzo educativo fatto dalla scuola con il fine di far percepire l’arte come qualcosa che si può avere il piacere di scoprire per sé stessi ed invogliare così i ragazzi ad una visita fisica al museo.» 

 

Se il successo da parte delle istituzioni museali sui social sembra essere arrivato tardi, considerando che app come Instagram e Facebook sono presenti nelle vite di quasi ognuno di noi già da almeno dieci anni, è perché fino all’arrivo di TikTok e del suo algoritmo, imprevisto per gli utenti ma mai effettivamente casuale, risultava piuttosto difficile attirare l’attenzione della fascia demografica più giovane. Come segnala Forgione, la piattaforma è stata una delle prime a sostenere la promozione di contenuti informativi in modo concreto, in Italia e all’estero con le iniziative #imparacontiktok e #artontiktok«Diciamo che vi è stata una convergenza virtuosa tra la necessità dei musei di trovare un luogo virtuale dove incuriosire i più giovani, sperimentando un linguaggio nuovo, e la presenza di una fetta di mercato libera, non sfruttata da altri social,» ha aggiunto l’esperta. «Si è capito che c’era domanda di cultura da parte dei più giovani, soprattutto se mediata da personaggi a loro vicini, così si è spinto verso le collaborazioni tra creator, musei e piattaforma per far scoprire i luoghi dell’arte mondiali.» E qui coglie l’occasione per ricordare la maratona live del 2021 che TikTok ha pubblicato durante la Giornata Internazionale dei Musei, un’esperienza che ha coinvolto musei da ogni parte del mondo registrando al suo termine una crescita dei contenuti taggati #museum di quasi il 200% rispetto all’anno precedente. 

Oggi l’arte sui social può essere divisa in mondi ben diversi tra loro: da un lato ci sono le pagine come quella degli Uffizi, del MET e del Tate, che offrono accesso ad alcune delle opere più famose al mondo riconosciute nella cultura pop e non come icone indiscusse della loro epoca, dalla Venere di Botticelli alle Campbell's Soup Cans di Andy Warhol, dalle Ninfee di Monet ai Manifesti delle Guerrilla Girls; dall’altro ci sono i profili dei giovani artisti che promuovono le proprie opere, chi con esito positivo e chi no. In bilico tra queste due realtà si trovano poi le immersive experience, quelle opere itineranti che nascono essenzialmente come installazioni instagrammabili, provocando ad ogni nuova inaugurazione l’odio di critici ed esperti d’arte.  Non hanno molto in comune con il metodo di comunicazione ironico dei musei, eppure rappresentano a modo loro una visione inclusiva e totalmente accessibile d’arte che, sebbene superficiale, funziona. «Bisogna sempre muovere da un approccio libero da preconcetti e da una consapevolezza: non tutti hanno gli strumenti per leggere e comprendere l’arte,» ci dice Forgione, sostenendo il suo discorso precedente sull’importanza della target audience, aggiungendo un’osservazione significativa sul punto di vista elitario ed escludente che spesso gli esperti riservano al settore di cui fanno parte - un discorso che però, secondo l’ex social media manager, riguarda solo in modo marginale lo sfruttamento di icone pop per la pubblicità all’estero; in quel caso, sottolinea, ci vuole «una particolare attenzione a non rendere ridicola l’immagine, se non si sta utilizzando un approccio volutamente ironico e giocoso.» 

 

«Credo che sia elitario ed escludente pensare che l’arte debba essere fruita seguendo un unico approccio, quello della conoscenza specialistica. Esistono molti livelli di conoscenza e approfondimento. Perché mai l’arte non potrebbe riempire il tempo libero? […] L’esperienza immersiva, oltre a colmare lacune di natura educativa, rispetto al percorso di scolarizzazione, economica e sociale di origine, facilita il confronto con le opere perché queste non devono essere fisicamente trasportate. Pensiamo ad esempio ad un’opera che si trova negli USA o in Giappone… in più anche nei luoghi in cui non vi sono sufficienti risorse o spazi per costruire spazi museali – che richiedono standard di sicurezza specifici per le opere – è possibile comunque organizzare esposizioni, perché è più semplice adattare ambienti a quel tipo di esperienza.» 

 

Ribaltando completamente la prospettiva con cui spesso ci si confronta con le opere d’arte e gli spazi che le accolgono, il lavoro sui social che i musei stanno attuando in collaborazione con content creator, influencer e con gli artisti stessi sta riscrivendo le regole dell’educazione più che della comunicazione marketing, proprio perché tramite l’appoggio di personaggi e citazioni pop il patrimonio artistico italiano riscopre un’aria di freschezza e genuinità altrimenti perduta. Anche per Forgione, che vive a cavallo tra lo studio accademico e quello dei social moderni, marketing e comunicazione non sono solo utili alla promozione della conoscenza artistica, ma concretamente - e ci sono le prove - necessari«Per me, sono da vedere con favore anche le collaborazioni con creator non direttamente legati al mondo dell’arte, che favoriscono una sorta di “crossover” di pubblico, permettendo di raggiungere anche persone davvero molto distanti dal mondo della cultura e che probabilmente non riusciremmo ad agganciare diversamente.» Ed aggiunge, «Credo si commetterebbe un errore di arroganza affermando che le persone si interessano solo perché glielo ha detto l’influencer di turno. Si tratta di far leva su di un legame di fiducia e credibilità che ben può esser parte di una strategia comunicativa più complessa. La credibilità di chi pubblicizza l’evento è indubbiamente una scorciatoia per farlo conoscere, ma si tratta solo di uno dei modi di inizio di un processo di conoscenza ed approfondimento che deve essere proseguito altrove.» 

Adesso che anche altri  musei italiani stanno seguendo le orme degli Uffizi, giustamente invidiosi del loro successo, non resta che occuparsi del patrimonio artistico che vive al di fuori dei musei, dai Mari che circondano la nostra Penisola, alle Alpi che la proteggono, dagli edifici che per secoli sono stati amati grazie alla loro profonda storia, alle strade che li collegano tra loro, troppo spesso vittime del turismo di massa che affligge il Bel Paese. Ma da dove partire? Secondo il parere di Forgione, «la questione è complessa e non esistono soluzioni immediate e senza sforzi,» dichiara, schierandosi contro gli ingressi contingentati poiché anch’essi classisti ed elitari. «Potrebbero essere utili politiche che aiutino a distribuire meglio i flussi,» spiega Forgione, «volte ad educare il turismo al rispetto dei luoghi e allo spreco; all’importanza di non inquinare e così via.» Ma il vero cambiamento, secondo l’esperta, parte da noi cittadini, che dovremmo rivisitare la nostra percezione di turismo e il modo in cui accogliamo chi arriva per ammirare le bellezze italiane anche attraverso sforzi per il miglioramento dei mezzi pubblici, dei locali, degli alloggi e dei centri satelliti. Forgione non esclude nemmeno l’utilizzo di intelligenza artificiale per abbattere «l’idea del Paese dei furbetti.» Bisognerà insomma rimboccarsi le maniche senza badare a giudizi o spese; nel frattempo, a farci sorridere ci pensano i video sulla Divina Commedia che postano gli Uffizi.