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La campagna con la Venere di Botticelli è la prova che le istituzioni non sanno comunicare

Dialogare con una generazione che non si conosce

La campagna con la Venere di Botticelli è la prova che le istituzioni non sanno comunicare Dialogare con una generazione che non si conosce

“Italia: open to Meraviglia” titola la nuova campagna ideata dal ministero del Turismo insieme a Enit, per promuovere l’Italia nel mondo. Protagonista una Venere di Botticelli yassificata, raffigurata “coi capelli sempre al vento”, in minigonna, in bicicletta, in barca, mentre mangia la pizza. “Open to meraviglia” si compone di un video promozionale che sarà trasmesso su treni, aerei, sulle reti Rai, su Netflix, e di una serie di visual per affissioni, ma dispone anche di uno specifico profilo Instagram @venereitalia23. Un’operazione di marketing costata nove milioni di euro, fortemente voluta dalla ministra Santanchè che, probabilmente memore dell’attenzione social che aveva suscitato Chiara Ferragni in visita agli Uffizi nel 2020, ha deciso di trasformare un quadro del Quattrocento in influencer. «Speriamo che la Venere di Botticelli diventi molto famosa anche tra i giovani, attraverso questa combinazione tra arte e digitale», spiega Marco Testa, creatore della campagna, «Questo è un modo un po’ diverso di rappresentare l’Italia, per andare verso un turismo più giovane» fa eco Santanché. Va da sé che le polemiche non si sono risparmiate e neppure i remake ai-generated: «Open to meraviglia? Che roba è? Che lingua è?» tuona Sgarbi che da cultore della materia ritiene che l’arte si promuova da sé, «scopro che il Ministro del Turismo ha speso 9 milioni di euro per dare vita a una versione che sembra uscita da Tinder della Venere di Botticelli» scrive invece la deputata Giulia Pecorella su instagram. 

Certo, la Ferragni agli Uffizi si era rivelata una strategia vincente: i visitatori nel weekend successivo erano stati oltre 9.300, con un aumento del 27% nelle presenze dei giovani under 25. Eppure l’indignazione social generata dall’associare il volto di una delle influencer più celebri al mondo a manifesto del patrimonio italiano aveva rinforzato ancora una volta lo stereotipo di una cultura elevata fatta di uomini in giacca e cravatta over 50, colletti inamidati e parole auliche, alla Sgarbi per intenderci, per tutti coloro che sostengono che “l’arte si promuove da sè”. Una visione esclusiva ed escludente dell’arte come totem di una cultura inaccessibile se non a chi la possiede già. Ma è proprio quello stereotipo che fa languire i musei italiani, che hanno invece bisogno di un nuovo pubblico giovane per essere in grado, anche economicamente, di migliorare la propria offerta. Ed è ai giovani che la Santanchè ha parlato, dimostrando che il divario tra la classe politica vigente e le nuove generazioni non è solo abissale, ma anche incolmabile.

La campagna ideata dal ministero del Turismo strizza l’occhio ad un tipo di promozione smart fallendo miseramente, non tanto per l’intento, svecchiare la comunicazione del patrimonio italiano che non ha mai brillato per originalità, quanto piuttosto per il modo “quell’allure da pubblicità vecchio stampo, superata, cringe, stereotipata e persino a rischio di scadere nel kitsch.” Gli Uffizi stessi sono un esempio virtuoso di sodalizio tra cultura e comunicazione, fautori di una strategia social che include l’istituzione di mostre e iniziative social sulla black presence nel Rinascimento e il lancio di contenuti educativi su Tik Tok anche attraverso trend e meme. «La pubblicità è l’anima del commercio e noi dobbiamo vendere il nostro prodotto» ha affermato la ministra durante la presentazione. Il problema è che l’immagine diffusa dalla campagna è lo specchio di un’Italia che non esiste, anacronistica, frutto della visione periferica che hanno i politici dall’alto delle loro poltrone nel tentativo di dialogare con una generazione che chiaramente non conoscono.