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Non è disordine è "mindful mess"

Le campagne di UGG, Coach e Gucci hanno sperimentato l'estetica del caos

Non è disordine è mindful mess Le campagne di UGG, Coach e Gucci hanno sperimentato l'estetica del caos

Nel macrocosmo mutevole della moda, ogni brand decide quale valore comunicare e come dare enfasi ai propri prodotti. Ad esempio, marchi contraddistinti da storie antichissime cercano di catalizzare l'attenzione di potenziali clienti grazie allo storytelling del proprio heritage e dei minuziosi processi artigianali che evidenziano la qualità finale dei loro item, da Hermès a Brunello Cucinelli, passando per Zegna. Ogni marchio ha però una strategia a sé, che inevitabilmente, nella maggior parte di casi, riflette il proprio DNA. Eppure, anche nella comunicazione esistono i trend ed è per questo che diversi brand, indipendentemente dalla loro storia, hanno cavalcato l'onda dell'estetica disfatta, celebrando il caos che si cela dietro la creazione di una collezione o di un prodotto. C'è chi a questo fenomeno ha dato persino un nome: mindful mess.

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Colori sgargianti, toppe e patchwork: l'esempio più recente della diffusione del mindful mess nel mainstream è la campagna di lancio per la collaborazione tra UGG e The Elder Statesman, che vede protagonista l'attore e sceneggiatore canadese Seth Rogen. Nelle immagini sembrerebbe che i prodotti della collezione, di per sé affatto low profile, volessero essere messi in secondo piano, nonostante fossero di fatto i veri protagonisti dello storytelling, evidenziando invece il processo creativo che ha portato alla loro creazione. Lo stesso discorso vale per la collezione di Ed Hardy con Mason Newman: gli scatti della campagna prediligono il processo creativo rispetto al prodotto finale. Ma se alla fine sul mercato sono gli item a essere messi in vendita, per quale motivo un brand dovrebbe tentare di occultarli? Un trend incentrato sulla narrativa, che punta i riflettori sul background, distaccandosi dalla cosiddetta flex culture in cui si rischia di rimanere intrappolati. La scambio tra il brand e il suo pubblico di riferimento svela così una realness e genuinità inedita e il customer non compra più il prodotto ma la storia che c'è dietro.

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Insomma, mostrare l'aspetto più "umano", trasparente e senza veli, a discapito di uno più artefatto, sembrerebbe la mossa vincente per i brand, una strategia già utilizzata da creator, influencer o modelle - persino nel cinema - per simulare spontaneità nonostante i product placement. Ma se quelle di UGG con Elder The Statesman ed Ed Hardy sono state le ultime testimonianze visive di questo fenomeno nella moda istituzionale, chi è stato ad aprire le danze? Bisogna andare a ritroso di qualche mese per capire quando nella moda si è iniziato a veicolare il caos come espediente comunicativo. Uno dei primi tentativi è a opera di Marc Jacobs, tramite il progetto Collectors Campaign, che consisteva nello scattare le camere da letto disordinate dei più grandi collezionisti di HEAVEN, poi è arrivato il turno della campagna di Gucci, HA HA HAin cui il protagonista Harry Styles è ritratto con una pila di vestiti a fare da sfondo, a voler raccontare in maniera trasparente e volutamente ingarbugliata il percorso dell'artista da zero fino all'affermazione come icona del menswear. Per non parlare di tutte quelle volte che gli street style caotici delle star si sono rivelati d'ispirazione per i loro fan - avete mai visto come esce Chris Pine per fare la spesa? La prossima volta che qualcuno vi rimprovera per il vostro disordine, ditegli che è solo mindful mess.