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Quando la moda investe nei beni culturali

Come i grandi brand contribuiscono a valorizzare il patrimonio artistico con iniziative che spesso vanno oltre il ritorno d’immagine

Quando la moda investe nei beni culturali Come i grandi brand contribuiscono a valorizzare il patrimonio artistico con iniziative che spesso vanno oltre il ritorno d’immagine

Nel cuore della Capitale, vicinissimo al Campidoglio e ai Fori Imperiali, l’Arco di Giano è un maestoso monumento rimasto transennato per decenni, dopo che nel 1993 l’esplosione di un ordigno piazzato da Cosa Nostra ne rese necessario il restauro. In questi anni è stato possibile visitarlo solo in rare occasioni, ma grazie alla collaborazione tra la Fondazione Alda Fendi – Esperimenti e la Soprintendenza di Roma oggi è di nuovo aperto al pubblico e liberamente fruibile. Vale lo stesso per l’attuale Rhinoceros gallery, nelle immediate vicinanza dell’Arco di Giano, ospitata in un edificio storico restaurato nel 2017 dal famoso architetto francese Jean Nouvel, con un’operazione di riqualificazione e recupero voluta della fondazione culturale che fa capo a Fendi. Il marchio romano quattro anni prima aveva anche lanciato il programma “Fendi for fountains”, per il rinnovo di alcune fontane monumentali della Capitale. Praticamente tutte le grandi label di moda investono da tempo nel restauro e nella promozione dei beni culturali, italiani e non, attraverso le fondazioni collegate agli stessi gruppi aziendali. I brand luxury, sull’onda di un fenomeno in continua espansione, di fatto supportano le istituzioni nel tutelare e valorizzare il patrimonio artistico nazionale, promuovendo iniziative a beneficio delle comunità locali.

L’Italia detiene il primato mondiale di beni classificati come patrimonio dell’Unesco, di cui 29 sono città. Eppure per la tutela e la valorizzazione del patrimonio nel 2019 l’Italia ha speso poco più di 5 miliardi di euro – la Francia ne ha spesi 16.8. Negli anni successivi gli investimenti nel settore non sono aumentati, e il Paese è negli ultimi posti della classifica europea sulla spesa in servizi culturali. In questo panorama, brand italiani e non sono sempre più consapevoli che prendere posizione, con misure concrete, in ambito culturale è molto importante per la propria identità e narrazione. Le operazioni di restauro di palazzi storici (così come l’apertura di musei), da parte delle case di moda, non vengono più considerate solo come un mero ritorno di immagine – perché entrano in gioco fattori legati al sociale, che sebbene sono difficili da quantificare puntano a migliorare il territorio e l’ambiente in cui le stesse corporation si ritrovano a lavorare. Lo scorso luglio la scalinata di Trinità dei Monti ha fatto da sfondo alla sfilata romana di Valentino; il Ceo della maison a tal proposito ha detto: «Per noi il giving back, il restituire, è un valore cruciale». Per l’occasione la casa di moda diretta da Piccioli ha annunciato il restauro dei mosaici delle Terme di Caracalla, e ha “ridato” alla città due palme distrutte dai parassiti in Piazza di Spagna.

E ancora: a Firenze Ferragamo ha sostenuto il restauro delle sculture del ponte e della piazza Santa Trinità, così come di otto sale della Galleria degli Uffizi, mentre la manutenzione dei Giardini di Boboli è passata per Gucci. A Milano, invece, è stato Giorgio Armani a dare nuova vita a una delle principali case-museo della città: «Sono rimasto fin da subito affascinato dalla ricchezza artistica e culturale espressa in ogni idettaglio di Villa Necchi Campiglio. È per questo motivo che ho deciso con entusiasmo di dare un ulteriore contributo per il restauro. [...] Sono trascorsi molti anni dal mio primo incontro con il FAI [Fondo per l’ambiente italiano, ndr] e ancora condividiamo progetti e passioni per tutelare le meravigliose opere dell’ingegno umano». Queste iniziative non riguardano il semplice mecenatismo culturale, ma la salvaguardia di territori e città a cui i singoli brand sono legati – anche in termini progettuali: «Credo che un imprenditore di successo abbia il dovere di fare qualcosa di utile anche sul piano sociale, per il territorio in cui opera», ha detto il fondatore di Diesel Renzo Rosso quando si è preso in carico il restauro del Ponte di Rialto, a Venezia, donando 5 milioni di euro. Un’attitudine, questa, che non conosce confini: Chanel, a Parigi, ha fatto lo stesso con il Grand Palais, nello spazio dei Giardini degli Champs Élysées, mentre vari gruppi luxury hanno stanziato aiuti economici per la ricostruzione di Notre-Dame, dopo l’incendio dell’aprile 2019. La creazione della Louis Vuitton Fondation rappresenta la sintesi di questo approccio: l’idea di Bernard Arnault, presidente e Ceo del Gruppo LVMH, era quella di stravolgere il tradizionale concetto di filantropia per dar vita a qualcosa che andasse oltre la pura beneficenza; la fondazione nasce infatti per dare alla Francia intera un ruolo da protagonista nello sviluppo della creatività artistica e culturale nel mondo.

Neanche il Gruppo Prada si è sottratto a questo trend e, dopo aver sostenuto numerose iniziative filantropiche in Italia, nel 2013 ha finanziato il rifacimento delle facciate del Palais d’Iéna di Parigi. Nel 2018, poi, si è spinto fino in Oriente – a conferma dell’importanza di questo mercato per la maison: a seguito di un restauro durato sei anni, è tornata a essere fruibile Villa Rong Zhai, residenza storica del 1918 nel cuore di Shangai, in Cina. A tal proposito Miuccia Prada di recente ha detto: «Uso il mio nome per rendere attraente la cultura. La mia ossessione è fare cose utili per gli altri». A farci caso, tutte queste grandi firme e companies hanno saputo cogliere l’importanza di utilizzare, a livello strategico, i valori associati all’estetica e all’arte, con l’obiettivo di distinguersi dalla concorrenza e accrescere la propria affidabilità come brand – sui rispettivi territori e verso le proprie comunità di riferimento. Agli addetti ai lavori ormai è chiaro che il posizionamento in ambito artistico è una strategia vincente per dimostrare e mettere in pratica le mission degli stessi marchi. I finanziamenti da parte delle case di moda ai beni culturali, iniziati dalla metà degli anni Ottanta e ancora molto comuni, sono – in conclusione – una grande opportunità per l’industria di scrollarsi di dosso l’accezione negativa che per molti anni l’ha accompagnata.