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Sanremo potrà mai rappresentare il paese?

Più Mahmood e meno Iva Zanicchi

Sanremo potrà mai rappresentare il paese? Più Mahmood e meno Iva Zanicchi

Compagno di buona parte del pubblico italiano, il Festival di Sanremo è diventato ormai un punto fermo della cultura italiana trasformandosi di anno in anno sempre di più in uno specchio della nostra società, ma soprattutto della sua incapacità di creare e portare avanti una cultura pop degna di essere chiamata tale. Quello tra la pop culture e il nostro paese è un problema ormai rinomato, che affonda le radici in un concetto di spettacolo provinciale e nazionalpopolare passato dal Festivalbar al Telegatto con pochi guizzi e tentativi di poter creare un prodotto non solo esportabile e godibile all’estero ma anche non intrinsecamente legato all’idea di un paese da “pizza e mandolino”. Nonostante il rapporto morboso con cui buona parte degli italiani vive l’avvicinarsi del Festival e le relative serate, probabilmente nessuno di noi lo segue per il piacere di guardare un programma qualitativamente appagante ma probabilmente è mosso da un attaccamento personale a un’istituzione ormai insostituibile della nostra tv.

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Nonostante il disfattismo, un altro Sanremo è possibile. Soprattutto, un Sanremo diverso è possibile. Negli ultimi anni il mondo della moda ha sicuramente portato una ventata d’aria fresca a un format che iniziava a puzzare di stantio, ma soprattutto che non era in grado di dialogare con altri ambiti che non fossero quelli del microcosmo musicale. In questo senso il lento ma efficace cambio generazionale dei nomi sul palco ha portato nel corso delle ultime edizioni a porre un’attenzione maggiore sullo styling degli artisti, portando nelle maglie del Festival di Sanremo quella componente più “fashion” che abbiamo sempre invidiato, e sicuramente apprezzato, ad appuntamenti come gli Oscar o il Met Gala. Puntare su Sanremo come trampolino per un rilancio della pop culture in Italia sembra anche una conseguenza naturale vista l’assenza di altri appuntamenti capaci di esercitare lo stesso fascino del Festival. Anni fa venne fatto un tentativo del genere con i David, i premi del cinema italiano che nella loro breve gestione Sky divennero dei lontani parenti degli Oscar; ma tolto quel lodevole tentativo, il destino degli appuntamenti pop in Italia rimane unicamente in mano al Festival della canzone italiana.

Ma per cambiare Sanremo, per renderlo uno specchio del paese 2.0 è necessario un vero passo in avanti, un avvicinamento verso la generazione che guarderà Sanremo per i prossimi venti, se non trenta anni. Perché se il pubblico più adulto vive il Festival con un legame nato con Pippo Baudo e i Jalisse, quello più giovane ha bisogno di creare una connessione personale attraverso uno svecchiamento del Festival, qualcosa che forse difficilmente si sposa con la presenza costante di Amadeus e Fiorello. Qualcosa di simile era stato fatto nel 2020, quando il DopoFestival passò dalla classica diretta su Rai1 allo streaming di RaiPlay nel tentativo di sfruttare l’onda di Netflix e dando le redini del programma a nomi come Myss Keta e Valerio Lundini. Ma basta davvero? Se Sanremo è un prodotto figlio della cultura pop Italiana allora il problema è alla base, dalla necessità di cambiare il modo di fare e vedere non solo la tv, ma anche il modo in cui questa si collega con il mondo esterno.