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Perchè guardare “Il Giovane Berlusconi”?

Brillante, nostalgico, inquietante

Perchè guardare “Il Giovane Berlusconi”? Brillante, nostalgico, inquietante

Nel corso delle tre puntate de Il Giovane Berlusconi, la nuova docu-serie Netflix che ricostruisce la parabola imprenditoriale dell’uomo politico più controverso della storia di questo Paese, c’è uno sottile retrogusto che si avverte dietro l’entusiasmo della narrazione. La storia, che inizia negli anni ’70 con l’acquisizione delle prime reti televisive locali e la nascita di Milano 2, per poi snodarsi attraverso il trionfo yuppista anni ’80 di Mediaset e del Milan, e si conclude infine con la nascita di Forza Italia, è quella di un successo inarrestabile, di una lungimiranza brillante e miracolosa ma soprattutto è la fotografia di una società colta in una svolta storica. In questa storia di successo, un po’ come nel Dune di Vielleneuve, dietro la figura quasi messianica del Cavaliere si intravede quella del manipolatore, si intuisce in filigrana il ruolo che quella retorica del disimpegno, dell’edonismo e della spregiudicatezza avrebbe avuto sullo stato attuale della democrazia e sull’odierna cultura della post-verità e della post-ideologia. Proprio come Berlusconi aveva anticipato lo zeitgeist del ventunesimo secolo, la società dove tutto è content, mercificato e spettacolarizzato, la storia della sua strategia imprenditoriale e della sua shakespeariana conquista del potere anticipa un mondo come il nostro in cui la propaganda politica diventa più sottile e insidiosa quanto più è sfacciatamente aperta nelle proprie intenzioni. In questo senso la radicale diversità di Berlusconi dal resto della classe politica precedente (un’intera puntata ruota intorno alla caduta di Craxi e a Mani Pulite) appare insieme storicamente necessaria ma surreale: uno dei momenti più assurdi ma stranamente veridici dello show è proprio quando Canale 5 venne oscurato ma la popolazione si mise effettivamente a protestare per riavere indietro i propri programmi televisivi tra cui, incredibilmente, I Puffi. Una situazione bizzarra, che fa quasi ridere, ma che racconta bene la stagnazione della cultura ufficiale, il desiderio di cambiamento e modernità, ma anche la sostanziale frivolezza e superficialità di un elettorato che, in fondo, chiedeva a gran voce solo panem et circenses.

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Il punto è proprio questo: ai tempi, la televisione di stato così come lo stato stesso nelle persone dei suoi politici, dei suoi partiti e della sua politica erano tragicamente antiquati, anchilosati in posizioni tenute per decenni, incapaci di seguire effettivamente il dettato della modernità. Considerando quel momento, l’arrivo delle reti di Berlusconi, i suoi visionari progetti di Milano 2, l’acquisto del Milan che mimava in versione più amichevole e popolare l’aristocratica albagia del clan Agnelli, il cambiamento portato dalle varie Mediaset, Publitalia e via dicendo fu miracoloso. Una ventata di frescura che praticamente obliterò l’obsolescenza di una cultura ufficiale, finendo poi per sostituirla – ma abbassando irrimediabilmente il tono del discorso pubblico. Quella stessa salvifica leggerezza, quella radicale modernità aprirono però la strada al product placement, alla propaganda semi-occulta, allo strapotere con cui i media ancora oggi tengono la coscienza collettiva per il collo. Verso la fine della seconda puntata e per tutta la terza, viene poi raccontato un momento di crisi che rappresenterà retrospettivamente il culmine della parabola di Berlusconi: il crollo quasi simultaneo del Muro di Berlino, di Craxi, dell’intero sistema politico con Mani Pulite, l’indebitamento e gli investimenti sbagliati. Qua arriva il colpo di scena: da superpredatore alfa messo all’angolo, Berlusconi si gioca il tutto per tutto e salta nel mondo politico, alzando ulteriormente la posta in gioco ma vincendo tutto. Da lì in avanti la politica sarebbe diventata cultura pop, i partiti simili a macchine aziendali, la comunicazione ufficiale e gli espedienti per trovare consenso teatrali. È la nascita del mondo moderno – ma alla fine della serie questa nascita è più vicina a The Omen e Rosemary’s Baby che a un semplice “lieto evento”.

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Ma perché guardare questa serie su Berlusconi? Al di là della botta di nostalgia per quell’epoca che molti Millennial non hanno mai vissuto, le tre puntate del documentario ricostruiscono un passaggio della storia e della vita socio-culturale dell’Italia che, per l’appunto, i giovani adulti di oggi non hanno mai visto. Quando loro crescevano Berlusconi era già sul podio, la sua presenza e il suo potere erano incontestabili, il suo dominio sulla mente collettiva del paese qualcosa di scontato. Ma vedere come Berlusconi sia arrivato a quelle altezze neroniane di potere, da Milano 2 alla creazione di quel network che sarebbe poi diventato Mediaset, dà veramente una misura della scala monumentale della sua scalata lunga una vita: bisogna vederla nascere e crescere per capirne l’originaria forza, l’incredibile lungimiranza, la novità che rappresentò. Risulta però impossibile non raffrontare quell’era di ottimismo con le ombre successive di quella storia, con gli intrighi, la corruzione, l’amicizia con autocrati e dittatori come Putin e Gheddafi, la decadenza culturale che avrebbe fatto dilagare nel paese in nome dello share e del consenso politico. Potremmo quasi parafrasare Tacito dicendo che Berlusconi fece un deserto e lo chiamò un impero. Le televisioni, le costruzioni, le banche, la pubblicità: un po’ come Thanos o le orde dei barbari, il Cavalieri fu ineluttabile, calò su un sistema ormai cadente costruendo su quelle rovine, fu un meteorite che spazzò via i dinosauri, l’apostolo di una Milano da Bere di cui ancora inseguiamo il miraggio. Ma, in verità, come la serie stessa fa notare, l’operato di Berlusconi fu innovativo nei modi ma non troppo nei contenuti: Berlusconi rappresentò un prolungamento, un’evoluzione di quel sistema politico antico e fatiscente che distrusse ma alla cui estinzione sopravvisse, tutte le “vecchie facce” della politica furono in realtà strumentali per la sua ascesa, più che distruggere il sistema lo restaurò in modo così irriconoscibile da farlo sembrare nuovo e rivoluzionario. Se parve elevarsi al di sopra del passato, fu perché era in quel passato che aveva piantato delle radici. 

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Berlusconi fu il profeta di una società felice della sua ricchezza, entusiasta della sua stessa vitalità eppure viziata allo stadio terminale, drogata di una superficialità e di un gaudio allora bellissimi ma che oggi hanno avuto altre e più pesanti ricadute. Esplorare questa società, il cambiamento di quel mondo dal punto di vista “dall’alto” di Berlusconi è forse il valore più importante che ha questa serie che, diciamolo pure, non è né un’agiografia né una lamentazione, ma il lucido rendiconto, tra allegria e distopia, di una spietatezza vincente.