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Perché tutti dicono di odiare Milano

Quando la metropoli del progresso va in regressione

Perché tutti dicono di odiare Milano Quando la metropoli del progresso va in regressione

Sono anni che lo diciamo: Milano non è più la terra promessa di un tempo. Dai vecchi sul tram con le borse strette al petto per paura di uno scippo ai bocconiani annoiati in fila al Rocket, non c’è estrazione sociale ed anagrafica che non sia stata colpita da questa totalizzante ondata di disillusione. In piena Fashion Week, quando influencer in total look Zara si appostano per il selfie perfetto fuori da Fendi, le borseggiatrici riempiono le for you page di TikTok e lo zenith della dicotomia che vive la città si realizza nell’aperitivo in terrazza Duomo vista clochard, la stampa ha rispolverato un cavallo di battaglia che imperversa dal post-pandemia: la fine del sogno del capoluogo meneghino come gloriosa metropoli europea. “Un nuovo modo di odiare Milano” titola Rivista Studio, per testimoniare l’insoddisfazione di chi si è scoperto detrattore di una città che fino a poco tempo fa diceva di adorare. Selvaggia Lucarelli su Il Fatto Quotidiano racconta della sua storia d’amore (finita male) con il capoluogo lombardo, con parole in cui, derive pietiste a parte, tutti potremmo riconoscerci. Ma quanto c’è di vero in tutto questo e quanto invece è frutto del tentativo di compiacere quella fetta di pubblico a cui piace raccontarsi di stare male, vivere male, in una sorta di decadentismo borghese alla voluptas-dolendi? 

Partiamo dai dati. Nel 2021 il capoluogo lombardo era secondo nella classifica del Sole 24 Ore, nel 2022 è tra le metropoli che hanno perso più di sei posizioni in un solo anno, passando dal secondo all'ottavo posto. A pesare in senso negativo è il caro affitti: un immobile, si legge nel dossier, può impegnare il 60% del reddito medio. Ma Milano sorprende in negativo anche per il 103esimo posto alla voce «giustizia e sicurezza», arrancando inoltre su «ambiente e servizi» con 37 posizioni bruciate in dodici mesi. Secondo le statistiche dunque, il benessere dei cittadini appare minato su più fronti: ricchezza e consumi, affari e lavoro, demografia, società e salute, ambiente e servizi, giustizia e sicurezza, cultura e tempo libero. La città accoglie ogni anno più di 20.000 studenti fuori sede, attratti dal mito della grande città in un mare di province o di centri urbani che, seppur grandi, non hanno lo stesso appeal internazionale, presto delusi da un sistema scolastico che li vede più come impiegati di una multinazionale piuttosto che studenti. Tra di loro parte subito una lotta intestina per la camera singola a 700 euro in Sant'Ambrogio e persino il clubbing non soddisfa più i gusti di una nuova generazioni di party people che si ritrova all’Opal sognando i rave di Berlino. 

«Corso Como, Porta Ticinese e i Navigli sono diventati i luoghi preferiti della micro criminalità, le gay street di Buenos Aires sono un dedalo di vie prese d’assalto dalla comunità arcobaleno e non solo, con guerre tra Comune e residenti sfiniti da caos e rumore. La zona della stazione, teatro del recente accoltellamento ai danni dei poveri passanti, (...) Via Vittor Pisani è una sfilata di locali chiusi e di accampamenti di senzatetto. Nel frattempo, in quartieri ghetto, ci sono classi di bambini popolate solo da stranieri, fattore che ostacola integrazione e ascensore sociale in una città sempre più a compartimenti stagni» descrive puntualmente Lucarelli. Con un costo della vita che supera di gran lunga gli stipendi medi, Milano si conferma una città per ricchi di famiglia o per quei coraggiosi che tra rocambolesche trovate, riescono a sbarcare il lunario, con il fiato sul collo. Una città che aspira a Parigi, sogna Londra, mira alla Svizzera, restando pur sempre un’imitazione provinciale di tutte e tre, come se a fermarla ci fosse quell’ineludibile fardello di italianità. Come sottolinea Anna Momigliano: «Ci siamo finalmente accorti che il problema della Milano che corre non è che lascia indietro, è che non corre mica così tanto. Non che Roma, coi cinghiali, sia messa meglio, è solo che questa storia di Milano come isola felice, “altro” rispetto al Paese che sprofonda, non convince più: messi un po’ meglio degli altri, forse, ma, come direbbe Stanis, siamo molto italiani.»

Il mito della Milano “che non si ferma” si scontra di fronte ad una capitale stanca di se stessa e dei propri ritmi, che in pandemia ci eravamo persino ripromessi di rivedere. Arranca tra l’essere e il dover essere, tra il ricordo dell’Expo e il proposito delle Olimpiadi, e si perde tra la criminalità, la gentrificazione che avanza, le difficoltà di integrazione e il miraggio del salario minimo ad appianare gli animi. Arranca quando il suo sindaco, che verso la fine del secondo mandato ha trovato il tempo per fare un podcast, ma non il tempo per risolvere il problema trasporti, tra corse soppresse e proteste settimanali, facendo guadagnare terreno a chi ha opinioni ben più polarizzate di lui. Il problema è che forse presi dal “lavoro a testa bassa” ci siamo dimenticati che uscendo dall’antro dei nostri uffici non c’è nessuna metropoli ordinata e culturalmente stimolante ad allietarci con passeggiate in centro, vernissage, feste esclusive. Affannandoci dietro al miraggio della “realizzazione”, ci perdiamo in una vita mediocre, soli, in una città corrosa dallo smog che non è più la terra promessa dei sogni che ci aveva accolti un tempo.