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Perché Courregès è il miglior fashion revival degli ultimi anni

Interpretare lo spirito non significa ricalcare il passato

Perché Courregès è il miglior fashion revival degli ultimi anni Interpretare lo spirito non significa ricalcare il passato
Courrèges SS24
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Nicolas Di Felice sta avendo il suo momento. Courrèges, il brand che gli venne affidato quasi esattamente tre anni fa, non è solo apprezzato dalla critica, ma lo si vede effettivamente in giro, indossato per strada da persone reali – forse il miglior complimento che si possa fare a un designer. La riuscita del revival non era affatto scontata: cos’avrebbe avuto da dire un brand-simbolo degli anni ’60 al pubblico di oggi? Il rischio era, ovviamente, di trovarsi davanti uno di quei brand-zombie che usano un nome più o meno riconoscibile per mascherare un’identità del tutto estranea al passato. Ma Courrèges era (ed è rimasto) un brand particolare: nato negli anni ’60 come prima casa di moda a volersi distaccare dal passato, fondata da uno studente di ingegneria ed ex-allievo del grande Balenciaga, all’urlo di «la bellezza è logica» il brand introdusse e popolarizzò le cuciture a guardolo per irrigidire gli orli, la gabardine di lana per creare abiti resistenti e in generale un approccio al daywear tutto orientato alla modernità, all’adesso. Ora, in una recente intervista rilasciata a BoF, Di Felice ha pronunciato una frase che qualunque designer alle prese con un revival dovrebbe incorniciare nel proprio studio: «La cosa peggiore sarebbe cercare di copiare, parodiare, cercare di resuscitare ciò che non esiste più. Niente invecchia un marchio più dell'imitazione di se stesso». Ciò che Di Felice voleva dire, cioè, è che un’operazione di revival riuscita (ma a questo punto, anche una semplice ispirazione) si basa, più che sul calco del passato, sull’interpretazione dello spirito originale del design, sull’approccio seguito dal founder. 

Negli anni ’60 Andrè Courrèges voleva definire il look della donna moderna a colpi di gonne corte e dalla forma trapezoidale, introdurre scarpe basse, tagli semplici e geometrici. La geometria, ad esempio, è rimasta alla base del lavoro di Di Felice che ha detto a Vogue: «Tutto nasce dalla forma del cerchio, l'ellisse, che è davvero bella e molto nello stile di André [Courrèges, ndr]». Nel nuovo Courrèges si vedono tracce del vecchio: un tailleur rosso del 1972, croppato con borsa alla cintura e un logo bianco sul petto pare essere stato disegnato l’altroieri; lo stesso si dica per quei basics colorati dalla linea così pulita e concisa, delle borse rettangolari decorate da un singolo grande logo, per i cut-out di tute e vestiti. Una prima differenza fondamentale nelle soluzioni pratiche volte a «aiutare [le donne] a coincidere col proprio tempo» era che il Courrèges originale utilizzava materiali più duri e rigidi per creare una sorta di “scatola” in cui accogliere la donna con abiti che andassero «oltre il seno, il sedere e tutte le curve femminili». I moderni tessuti usati da Di Felice rivelano invece tutte quelle forme, sia negli uomini che nelle donne, ma con la medesima intenzione liberatoria e rispondendo a un mondo dove gli abiti più immediatamente funzionali vengono già prodotti in massa e dunque le esigenze di modernità si rivolgono su modularità dei vari pezzi (che sono spesso basics), vestibilità e un lavoro sulla silhouette genderless che oggi è ormai imprescindibile per dialogare con una moderna clientela. Se per Andrè Courrèges la modernità era l'esplorazione dello spazio, con i suoi materiali e forme moderne; nel 2023 l'esplorazione è delle identità e delle possibilità del vestire. Non bisogna più modernizzare la maniera in cui il cliente vive nel mondo ma portare nel mondo la maniera in cui vive il cliente: in entrambi i casi, e con diversi esiti, lo scopo è quello di far coincidere gli abiti alla loro epoca.

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Tutte le molte caratteristiche che rendono modernissimi gli abiti vintage (e in particolar modo le giacche) e che sono ancora presenti nel nuovo Courrèges ma Di Felice le ha reinterpretate, in termini assai generali, attraverso design funzionali dalle linee terse, tessuti visivamente densi, geometrie essenziali e precise che si ritrovano nelle simmetrie e negli incastri dei diversi elementi sartoriali. Del tutto eliminati appaiono i colori sgargianti delle origini, il rosso a parte, così come i rigidi abiti in gabardine di lana anni ’70 sono diventati canotte asimmetriche, body e abiti in jersey e denim morbidi e trucker jacket dai grandi baveri. È interessante invece notare il discorso sui colori: Courrèges credeva che le donne dell’epoca fossero «arcaiche d’aspetto» e che si potessero «rendere più felici portando il bianco e i colori nelle loro vite» proprio perché i colori dominanti fino ad allora erano stati i grigi, i neri e i blu della couture classica – negli anni ’50 non si vedeva molto arancione in giro. Di Felice ha capovolto il ragionamento: essendo la nostra epoca anche troppo colorata, la sua palette è diventata più severa, rispondendo alle medesime esigenze con esiti opposti. È una proposta del tutto diversa da quella delle origini ma, allo stesso tempo, ne pare una prosecuzione ideale.

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Ma la parte più interessante è ancora una volta la reinvenzione moderna dello spirito originario del brand. Nelle intenzioni del fondatore, infatti, Courrèges doveva essere una risposta a quella moda signorile degli anni ’50 così attaccata al passato – una risposta formulata con gli stessi strumenti e la stessa ricerca dello chic del classico lusso francese ma che dava esiti del tutto opposti. In maniera del tutto insolita, infatti, quando aveva presentato la sua collezione di debutto nel ’61 (la famosa collezione Moon Girl è del 1964) Courrèges aveva incluso solo qualche decina di abiti da giorno e nessuno da sera, andando apertamente contro le regole della couture che prevedevano presentazioni con più di un centinaio di look divise tra giorno e sera. La scelta era forse stata dettata da una mancanza di fondi (gli abiti da sera sono più preziosi e dunque più costosi da produrre) ma era stata anche una decisione programmatica dovuta alla volontà di creare un guardaroba moderno da indossare, per l’appunto, tutti i giorni. Anche il discorso dell’accessibilità è stato toccato da entrambi i designer. L’anno scorso Di Felice disse sempre a Vogue: «All'epoca, Andre [Courrèges] parlava alle giovani generazioni. [...] Quindi voglio davvero che i giovani possano permettersi i vestiti». Un sentimento simile a quello del designer originale che lanciò due linee di diffusione per essere più democratico, che dichiarava di non interessarsi al lusso degli abiti ma alla loro funzionalità e che una volta disse: «Mi rendo perfettamente conto di quanto siano immorali i miei prezzi elevati. Il mio pubblico è troppo limitato. Presto dovrei avere la possibilità e i mezzi per vestire le donne che non hanno i mezzi per vestirsi con abiti originali di Courrèges. Le donne che lavorano mi hanno sempre interessato di più. Appartengono al presente, al futuro».

In breve, il lavoro che Di Felice ha svolto (e di cui forse lui stesso sarebbe il miglior divulgatore) è quello deduttivo di partire dalle medesime premesse generali stabilite dal founder per arrivare a soluzioni particolari diverse da quelle del passato. L'opposto di questo metodo, che potremmo definire induttivo, sarebbe invece stato partire dagli abiti d'archivio per risalire poi all'identità del brand. Solo che quest'ultimo metodo porta necessariamente a un'identità del brand diversa da quella originaria mentre il metodo "deduttivo" prende le mosse da quell'identità originaria pervenendo poi a esiti diversi che però rimangono una conseguenza di quelle intenzioni. Un metodo che molti altri designer dovrebbero tenere a mente: dopo tutto la bellezza, come diceva Courrèges, è solo logica.