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Stupidi vestiti per un mondo in fiamme

Il minimalismo sociale della FW23

Stupidi vestiti per un mondo in fiamme Il minimalismo sociale della FW23
Courregès FW23
Courregès FW23
Saint Laurent FW23
Saint Laurent FW23
Prada FW23
Prada FW23
Givenchy FW23
Givenchy FW23
Balenciaga FW23
Balenciaga FW23

Nell'epoca della normalizzazione delle sfilate in paradisi tropicali, di una moda che oltrepassa i limiti dell'intrattenimento e in cui sempre più distrazioni si frappongono tra pubblico e collezioni, si ha spesso la sensazione che l'abbigliamento sia l'ultima cosa che ci viene chiesto di considerare. L’abbiamo intitolata l’era dei fashion gimmick, alla stregua di un crescente numero di sfilate-cabaret in cui la creatività degli stilisti si è espressa in modo appariscente e non per un coupe du génie di Margeliana memoria, quanto piuttosto per ingraziarsi i favori del dio algoritmo. Il flusso generato dalla moda virale ha scaturito un fenomeno interno di polarizzazione, brand canonicamente alla costante ricerca di una nuova semplicità si sono spinti in un minimalismo più radicale e marchi solitamente più sgargianti hanno preferito dissociarsi dalla moda-cabaret. Saint Laurent, J.W. Anderson, Loewe, Dolce & Gabbana, Givenchy, Balenciaga, Prada, Ann Demeulemeester, Courrèges: la FW23 ha seguito i propositi di questa rivoluzione copernicana presentando un capolavoro dark di equilibrio e misura, lontana dalle suggestioni subculturali e in cerca di universalità in un panorama di disgregazione. È stata la stagione del nero, del power suit, di una nostalgia polverosa, delle silhouette mastodontiche per armarsi contro il mondo. 

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Balenciaga FW23
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Balenciaga FW23
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Givenchy FW23
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Givenchy FW23
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Prada FW23
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Prada FW23
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Saint Laurent FW23
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Saint Laurent FW23
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Courregès FW23
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Courregès FW23

La spilla a forma di giglio bianco in umile cotone bianco che accompagnava l'invito di Prada preannunciava una sfilata all’insegna della morigeratezza, in cui le uniformi delle infermiere dell'esercito della Seconda Guerra Mondiale si arricchivano di elementi decorativi degli abiti da sposa. «Ciò che mi sta a cuore ora è soprattutto dare importanza a ciò che è modesto, valorizzare i lavori modesti, i lavori semplici, e non solo la bellezza estrema o il glamour», ha riferito Miuccia Prada a Vogue nel backstage. Per Anthony Vaccarello il punto di partenza è stato invece proprio il glamour, visto come un valore inaccessibile, perduto nei meandri del passato, in un omaggio all’archivio di Yves, alle spalle squadrate degli anni ‘80, alle donne vestite da uomo che il fondatore della maison tanto amava: «Forse l'eleganza è qualcosa di cui oggi non abbiamo più il senso. Forse non ci interessa. Forse ha un altro significato, o forse non ne ha affatto. Ma io volevo davvero portare quell'idea». Nicolas di Felice ha mosso una critica al nostro “vivere connessi” facendo emergere modelle da un muro di nebbia illuminate solo dalla fioca luce dei loro smartphone, «Il cielo è blu - concludeva infine una voce metallica - Mi vedi? Ti vedo.» Per Acne Studios il setting sembrava riecheggiare le descrizioni bibliche del paradiso terrestre, a condannare il nostro progressivo dissociamento dai ritmi di natura.

Per Demna, la FW23, la prima dopo lo scandalo che lo ha coinvolto lo scorso anno, era un cospargersi il capo di cenere e farsi capro espiatorio di uno scandalo che in sé cela solo le contraddizioni della globalizzazione, delle narrazioni distopiche che il mondo online può operare a partire da semplici immagini. Uno stile che rinuncia alla flashiness degli abiti-meme che hanno decretato il successo della maison sotto il designer georgiano e che punta invece tutto sulla costruzione e sui materiali, sui drappeggi tanti cari a Cristobal, a partire dai 17 look total black che tentano di parlare di ritorno alla sartorialità, ma sono solo il triste stendardo di una creatività castrata. Pulizia, severità, neutralità: «Avevo bisogno di uno spettacolo perché ho bisogno di andare avanti. Ho bisogno di liberarmi, attraverso il mio lavoro, e quello che faccio, e metterlo là fuori», aveva detto in una conversazione presso la sede di Balenciaga nei giorni precedenti lo spettacolo «perché sono stati tre mesi infernali, e davvero non so come ho avuto la forza in me, mentalmente, per affrontarli.»

Il nero, così come l’archivio, è un core non-shade di Balenciaga; si sincronizza con l'umore della moda in generale, riposante proprio perché neutrale di fronte a un mondo sempre più polarizzato, in una collezione che si sottrae al giudizio memore degli effetti distruttivi che esso può avere. Se due anni fa ricordare gli anni 2000 rispondeva alla necessità di trovare qualcosa di rassicurante, riconoscibile e meno opprimente della cupa realtà post-pandemia - un sistema di valori e riferimenti culturali anacronistico rispetto ad un mondo in cui nessuno poteva più permettersi quella sfacciata superficialità che divenne cultura pop - il minimalismo sociale delle scorse stagione parla di consapevolezza e paura. Almeno per quella branca del fashion system che rinuncia a costruire narrazioni bolla in paradisi tropicali, che rinuncia a distogliere lo sguardo da un mondo in fiamme tra colori vitaminici e merletti. A più di un anno dall'inizio dell’invasione ucraina, il sentimento che domina il mondo della moda è, difatti, la paura, delle critiche, del futuro, di risultare superficiali, e i designer sembrano quasi volersi scusare del fatto che il loro mestiere sia progettare giacche da tremila euro in una società eroso dal capitalismo, dai conflitti, dalla crisi climatica.