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Il “Goblin Mode” non è quello che pensi

Banalità da social o celebrazione della depressione?

Il “Goblin Mode” non è quello che pensi Banalità da social o celebrazione della depressione?

Il nuovo hashtag che sta macinando views su TikTok, Twitter e Instagram è #goblinmode, alimentato da foto di Zendaya che si trascina sul pavimento di casa in Euphoria, video candidi di coinquilini in pigiama che frugano in appartamenti incasinatissimi, vari sketch umoristici sul restare a casa il sabato sera bevendo birra e guardando film trash e via dicendo. L’idea del goblin mode è in realtà un frame narrativo per diversi contenuti che si rifanno tutti all’idea del “lasciarsi andare quando si è a casa” senza curarsi di aspetto fisico, outfit, trucco o skincare, dieta e via dicendo. Il che rappresenta, sul piano della cultura social, una risposta a quei video motivazionali in cui tipi palestrati puliscono la loro man cave e il loro armadio di sneaker o delle ragazze si vantano per essersi svegliate presto e aver bevuto un frullato detox. Sul piano umano, invece, si potrebbe interpretare la diffusione del trend come l’estrema reazione a un mondo così caotico, problematico e imprevedibile che si decide semplicemente di chiudersi in casa, uscire per fare la spesa o l’occasionale giro dell’isolato e parlare con il proprio gatto. Come molti hanno già fatto notare, il trend tocca (anche se superficialmente) il tema della salute mentale mettendo in discussione le aspettative sociali e la cultura della produttività, celebrando l’auto-indulgenza ma anche evidenziando un certo nichilismo che un meme, una volta, riassunse nel motto: «Death is coming. Eat trash. Be free».

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Al di là del trend in sé, evitando le dietrologie forzate, l’emergere dell’idea di goblin mode evidenzia due fenomeni attraverso cui il linguaggio social si articola oggi: il primo riguarda l’ansia di inventare nomi sempre più disparati per spiegare fenomeni che esistono già da anni; il secondo riguarda invece la crescentemente polarizzata visione che si ha della salute mentale attraverso la lente dei social. Il primo fenomeno è un diretto derivato del sistema degli hashtag, che devono essere brevi e iper-riconoscibili, e che negli ultimi anni si sono moltiplicati seguendo la moltiplicazione del numero delle cosiddette “estetiche” su social media come TikTok – termini che tipizzano in realtà i modi di essere delle persone, riassumendo stati d’animo o immaginari complessi in singole parole. Il che non è necessariamente un male, ma tende a spostare e riscrivere i significati delle cose. Un esempio in questo senso è l'uso di termini psicologici relativi a disturbi come ansia o depressione per descrivere stati emotivi normali, in cui un termine come social anxiety, ad esempio, è passato dal descrivere un problema psicologico reale a qualunque situazione spiacevole - con il risultato di portare nello studio dello stesso psicologo sia chi si trova in una situazione spiacevole ma non soffre veramente di un disturbo cronico e chi dalla sindrome hikokomori o dalla agorafobia (due possibili alias scientifici del goblin mode) è affetto in modo serio. 

Un tweet semplice ma eloquente ha illustrato bene questa questione dei nomi: «Non stai entrando in “modalità goblin”, sei clinicamente depresso». Statement che evidenzia, da un lato, il fatto che creare un nome divertente e memabile per un certo stato d’animo finisce per giustificarne i sintomi, renderli normali e accettabili e dunque impedendone la risoluzione; e, dall’altro, il rischio più astratto di banalizzare problemi psicologici offendendo col proprio humor chi di depressione soffre davvero e ha difficoltà a socializzare e uscire di casa. A onor del vero, comunque, va detto che molti contenuti online legati all'idea di goblin mode non sono usati seriamente per discutere di depressione o per descrivere condizioni mentali continuative - la depressione si manifesta superficialmente come i sintomi del goblin mode ma è qualcosa di profondamente diverso e più grave. Il rischio implicito ovviamente sta nella generalizzazione del giustificare il giving up come qualcosa di liberatorio in maniera incondizionata e acritica e impedendo quella dialettica di base tra ostacolo e superamento dello stesso che è la chiave per la crescita delle persone. 

Come si diceva, poi, l’insistenza sul goblin mode sui social è la reazione naturale alla narrazione “positiva” e spesso forzata che proviene da influencer grandi e piccoli con video che li seguono nei vari step della loro routine, mentre puliscono metodicamente la propria casa, muovendosi tra arredi minimal-perfetti, si vestono, fanno le valigie e la doccia. La scanzonata e opposta reazione è dunque radicale, è il caos del goblin mode, degli spuntini di formaggio alle due di notte, dei piatti lasciati sporchi accumulati da due giorni, dei capelli rovinati dal cuscino. Ma ciò che manca in questa narrazione è un racconto sincero della vita quotidiana delle persone che oscilla tra gli estremi di #cleaningmotivation e #goblinmode – ed è proprio a causa della mancanza di uno storytelling mediato e temperato che la discussione su questioni di salute mentale attraverso i social risulti così incompleta, approssimativa e semplicistica e, dunque, inutile.