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Tutte le volte che i direttori creativi sono usciti di scena

Gli addii più inaspettati da parte delle stelle del fashion system

Tutte le volte che i direttori creativi sono usciti di scena Gli addii più inaspettati da parte delle stelle del fashion system

Da quando Alessandro Michele ha annunciato la sua separazione con Gucci, confermando una voce che lo aveva preceduto di qualche giorno, il mondo della moda è decisamente rimasto con il fiato sospeso. Sia per la grande sorpresa che questo annuncio ha causato, ma anche per l’incognita di chi prenderà il suo posto. Se per sapere chi sarà il suo successore bisognerà trattenere il respiro ancora per un po’, la storia del brand insegna che questo tipo di coup de théâtre non è sicuramente una novità. Basti pensare, infatti, allo stupore che scatenò la scelta di Tom Ford quando nel 2004, dopo dieci anni di brillante direzione creativa fatta di glamour, eleganza e sensualità, annunciò di lasciare Gucci dedicandosi al suo marchio omonimo. Senza dimenticare l'operato di Frida Giannini post Tom Ford che, dopo dieci anni di direzione creativa della maison italiana, fu sostituita proprio da Alessandro Michele. La leggenda narra che, in quell'occasione, il designer romano abbia preparato la sua prima collezione (FW15) in soli pochi giorni.

Sempre a proposito di notizie d’impatto, è quasi impossibile non tenere conto del recente annuncio di Raf Simons di voler chiudere il proprio brand. Decisione probabilmente scaturita dalla possibilità di potersi dedicare in maniera più mirata al suo ruolo di co-direttore creativo da Prada, la questione potrebbe giocare anche a favore della Signora e il suo lavoro da Miu Miu. E se questo episodio ha rievocato la scelta perseguita dal leggendario Cristóbal Balenciaga nel 1968 - chiudere la Maison dopo trent'anni di costante innovazione - Simons è la perfetta rappresentazione di quanto effimero possa essere il ruolo alla guida di grandi brand. I suoi annunci di interruzione di direzione creativa sono infatti piuttosto ricorrenti, facendo di Simons una sorta di habitué che ha più volte terminato percorsi creativi che sembravano destinati a durare felicemente. Ne sono un esempio la sua dipartita da Jil Sander nel 2012, abbastanza sorprendente, ma mai quanto l’epilogo dell’avventura da Dior durata solamente tre anni (dal 2013 al 2015), in modo assolutamente inaspettato, considerando il prestigio del ruolo e l’impatto dei suoi show presso la Maison francese; così come la gestione ancora più breve di Calvin Klein, che non ha raggiunto neanche la soglia della sua esperienza precedente quale successore di Monsieur Christian. 

Di pari dirompenza è stato anche l’annuncio di un’altra stella del firmamento fashion, Phoebe Philo che ha lasciato la guida di Céline (portata avanti dal 2010 al 2018) dopo aver ereditato il testimone da Stella McCartney e aver definito un’estetica – praticamente rasa al suolo da Hedi Slimane che ne ha preso il posto – così radicata nell’immaginario della moda e dei suoi affezionati fan, da essere poi replicata dal suo discepolo Daniel Lee da Bottega Veneta. Altro nome, quello di Lee, altro campanello d’allarme per segnalare una rottura tra il giovane creativo britannico e il brand dell’intrecciato verde brillante che, per questioni non propriamente creative, si è manifestata in tutta la sua virulenza dopo tre anni, a questo punto definibili come fatidici. Fonti legate alla stampa britannica imputerebbero a Lee un temperamento un po’ difficile e per questo delle dinamiche lavorative troppo complesse e spinose avrebbero portato molti collaboratori a lasciare le proprie posizioni. In questo ciclo che sembra quasi un valzer dei direttori creativi, non si può non menzionare il divorzio del 2017 tra Riccardo Tisci e Givenchy, dopo dodici anni e novantatré collezioni che hanno sicuramente modificato il rapporto tra lusso e streetwear in una chiave pop e di grande successo. Proprio Tisci è stato protagonista di una recente esperienza creativa dall’alto tasso di suspence, quando dopo cinque anni al timone di Burberry è stato sostituito, per l'appunto, da Daniel Lee che debutterà il prossimo febbraio alla London Fashion Week. In questo caso la tensione si è potuta avvertire distintamente quando le voci sul cambio di direzione hanno cominciato a girare, esattamente prima di quello che sarebbe stato l’ultimo show di Tisci per il brand inglese, già posticipato per il funerale della sovrana britannica. 

A chiusura di questo resoconto di addii indimenticati e indimenticabili, non può mancare il licenziamento di John Galliano dalla direzione della Maison Dior (1996-2011) a seguito di una serie di commenti antisemiti da parte del geniale designer che, nonostante questa parentesi assolutamente deprecabile, rimane uno dei nomi più autorevoli in materia di show iperbolici e fantasmagorici. Parlando di big names, anche la separazione tra Nicolas Ghesquière e Balenciaga è stato un altro momento di forte intensità sismica nella moda, con tanto di passaggio dal gruppo Kering a LVMH, dopo aver rinnovato l’immagine del marchio del “maestro di tutti noi” – come lo aveva definito Christian Dior – grazie a un’estetica fatta di mix stilistici e declinazioni futuribili di un abbigliamento tra l’anime e l’iperspazio. Così Ghesquière aveva parlato, senza troppe remore, delle incomprensioni che lo portarono poi a decidere di andare via: «alcune persone con cui ho lavorato in questi anni non hanno mai capito come funziona la moda. Continuano a dire che loro amano la moda, ma non hanno mai realmente capito che la moda non è come lo yogurt o un mobile, che si possono definire prodotti nel senso più puro del termine. Queste persone semplicemente non capiscono il processo complesso e complessivo della moda, e così ora la stanno trasformando in un qualcosa di facilmente riproducibile e piatto». Infine, in questo elenco merita un cenno conclusivo a Marc Jacobs che lasciò la direzione creativa di Louis Vuitton womenswear, esattamente prima dell’arrivo di Ghesquière, dopo sedici anni di collezioni brillanti al termine di un'esperienza partita nel 1997 e conclusasi con la SS2014, caratterizzata da una spiccata teatralità, tipica del designer newyorkese.