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Cosa ci insegna il successo di Primark a Milano

Tra file chilometriche e un nuovo megastore in pieno centro

Cosa ci insegna il successo di Primark a Milano Tra file chilometriche e un nuovo megastore in pieno centro

Il sei aprile l’apertura ufficiale del nuovo store di Primark - il 9° punto vendita in Italia e il 3° in Lombardia - aveva attirato per le strade di Via Torino una folla pronta a mettersi in fila per ore pur di esplorare lo store a quattro piani del colosso irlandese del fast fashion negli ex spazi di Fnac. Una «pietra miliare in una posizione privilegiata» per la strategia di espansione nel Paese: così l’ha definita Luca Ciuffreda, Head of Primark Italia, che fa inoltre sapere che dopo i punti vendita inaugurati nel 2021 a Roma e Catania, seguiranno presto anche altri centri a Torino, Bologna, Caserta, Venezia e Chieti. Dunque, nonostante una nuova consapevolezza dei rischi della sovrapproduzione e dell’impatto ambientale dei gruppi fast fashion, per non parlare dello sfruttamento della manodopera in tutti gli step della filiera, Primark continua a guadagnare terreno, tanto che a distanza di giorni dall’inaugurazione le forze dell’ordine gravitano ancora attorno all’ingresso per gestire la folla.

I segreti di questo successo sono molteplici: non solo la posizione, il centro nevralgico di Milano in una via che unisce il Duomo e Porta Genova, percorsa ogni giorno da migliaia di turisti, e non solo i prezzi che sono forse i più competitivi sul mercato. Il megastore a 5 piani con oltre 5mila metri quadrati, presenta in store collezioni moda donna, bambino e uomo, ma anche articoli per la casa e una sezione beauty, in tutto e per tutto dunque un centro commerciale nel centro storico della metropoli accessibile a tutti e pronto a sopperire ad ogni esigenza, che fa da business model agli astri nascenti del fast fashion come Shein e Miss Guided che stanno incorporando nella loro offerta anche elementi beauty e 'fast homewear'. Primark è inoltre un marchio strettamente legato all'immaginario del Regno Unito, uno scenario fatto di Starbucks e vacanze studio nelle principali città inglesi che per molti europei si lega ad una forte componente affettiva. Per Milano, dopo un triennio di pandemia, il colosso irlandese ha offerto ai cittadini oltre 250 nuove opportunità di lavoro: il negozio impiegherà più di 400 dipendenti di 24 nazionalità diverse, e ospiterà al sesto piano lo showroom del brand, oltre agli uffici nazionali. «Grazie per aver creduto in Milano, siete arrivati qui in un momento difficile ma sono sicuro che questo è un buon investimento - ha detto il Sindaco Sala - quello che oggi fa Primark è un atto di fiducia per la nostra città, non è scontato perché i vecchi milanesi come me lo sanno che questo palazzo ha una storia controversa, era vuoto da tanto tempo quindi è una grande responsabilità gestire uno spazio del genere. Queste 250 nuove assunzioni sono una grandissima gioia per noi. La nostra città va tenuta viva in questo momento, va resa gioiosa, nella consapevolezza delle difficoltà e va generata questa idea di ottimismo per il futuro».

Quello che si evince da questa storia, è che anche il fast fashion può fare del bene, soprattutto quando crea posti di lavoro in un periodo storico in cui gli impieghi sono più precari che mai. Un ambito dell'industria della moda in parte demonizzato che, nonostante le polemiche, continua a crescere a ritmi vertiginosi (basti pensare che Shein lo scorso semestre aveva un valore di mercato di 40 miliardi di euro). Gli ultimi anni, in cui ad una crescente consapevolezza delle problematiche ambientali si è unito il desiderio di voler ponderare i propri acquisti limitandoli a brand che facessero scelte etiche, non sono bastati a mettere in discussione il fast fashion, nonostante le campagne di green washing. Perché, ideali a parte, la maggior parte della popolazione mondiale non può permettersi di basare le proprie scelte sull'etica piuttosto che sulla convenienza e anche se potesse alla lunga è difficile resistere al fascino di item all'ultima moda che costino migliaia di euro in meno rispetto a quelli dei brand che le mode le fanno.