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L’era del quiet luxury è davvero finita?

Il nuovo mondo che ci aspetta a settembre

L’era del quiet luxury è davvero finita? Il nuovo mondo che ci aspetta a settembre

«Sappiamo che negli ultimi anni il quiet luxury ha prevalso», ha detto Rachid Mohamed Rachid, presidente di Valentino a Bloomberg, «ma secondo me, come tante altre cose nella moda, finirà per esaurirsi». Parole tanto semplici quanto fatidiche – dato che a settembre uno dei designer più amati del mondo, Alessandro Michele, tornerà sulle scene come nuovo direttore creativo di Valentino. Ora, Michele è stato per otto anni il profeta del massimalismo, dell’esotismo, dell’eclettismo, la sua moda è romantica, i suoi riferimenti culturali onnivori e il suo ritorno alla ribalta potrebbe in effetti suonare la campana a morto per il trend del quiet luxury a cui quasi tutti i brand si sono piegati negli ultimi tempi. Ma questa idea pone due serie di domande. La prima riguarda la natura del quiet luxury: è mai stato davvero quiet? E soprattutto cos’ha concretamente rappresentato per i diversi brand e per la moda nel suo complesso? La seconda riguarda Michele stesso: il suo massimalismo può funzionare e cosa aveva smesso di farlo funzionare da Gucci? Alla seconda domanda è semplice rispondere: il lavoro di Michele possiede un fascino unico ma, nonostante il suo incredibile successo, dopo la collezione SS21 i suoi design erano diventati ripetitivi e auto-indulgenti. Volendo essere ottimisti, comunque, dovendosi ora basare sul modello tracciato da Valentino Garavani, la stupenda sensibilità di Michele riuscirà a risultare più misurata e brillare come deve. E se il successo è quello previsto, la parabola del quiet luxury finirà. Non di meno, se in effetti finirà non sarà Michele ad averlo eliminato.

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Torniamo per un attimo indietro ai tempi del lockdown: quando l’arresto forzato di ogni attività colpì la società intera si era nella fase più aspra dell’ubriacatura streetwear. Il che non significa tanto che ci fosse solo streetwear ma che si era nel momento in cui, più di ogni altro, regnavano hoodie, t-shirt e sneaker logate; in cui le collaborazioni erano di giorno in giorno tanto più astruse ed evitabili quanto obbligate; in cui il legame tra prezzo di un capo e suo valore effettivo era più impalpabile. Era una fase ricca di artificiosità da cui Jacquemus emerse come il portatore di una nuova freschezza agreste e a cui il pubblico rispose prima con la ricerca di uno sportswear più autentico, che fu il gorpcore, e poi con la ricerca di senso e rassicurazione verso il passato. Fu in quel periodo che il quiet luxury divenne il sobrio antidoto allo sportswear, in cui si parlò di “price for value” e in cui l’abbondanza di loghi e significanti di status divenne qualcosa di volgare, così come lo divennero tute e sneaker insieme a tutti quei capi tecnici o eccessivamente correnti il cui unico vero valore era il logo. Per certi versi, dopo anni di enfasi sulla natura post-moderna della moda, il quiet luxury ha rimesso l’accento sul prodotto puro: tagli e materiali tornano al centro della scena, le proporzioni e i drappeggi sono protagonisti e soprattutto si torna a decantare il capo quotidiano, il basic elevato, l’abbigliamento senza tempo che ha valore perché lo si può effettivamente usare nella vita di ogni giorno. Fuori dal lusso questa enfasi su versatilità e longevità sfocia nella doppia mania del workwear e dell’archivio: il primo offre un’idea di quotidianità rilassata ma classica, il secondo un senso di una continuità e valore culturale. C’è solo un problema: quando il lusso viene ridotto alla sua pura essenza, non è sempre detto che questa basti a distinguere una precisa identità.

Il che ci porta alla problematica fase che il lusso affronta ora. Per farla breve: il repertorio della classicità, dei completi leggermente reinventati, degli abiti da cocktail e dei cappotti a cui applicare dei branding discreti si è rapidamente esaurito – sembra tutto uguale o quasi da brand a brand. Come risultato, il mercato si è spaccato in due: da un lato ci sono gruppi come LVMH, Kering e Capri Holdings che stanno attraversando, chi più chi meno, una fase di instabilità che è creativa, finanziaria e identitaria; dall’altro ci sono realtà come i gruppi di Zegna o Prada, ma anche Brunello Cucinelli ed Hermès, che nonostante il presunto raffreddamento del lusso continuano a vendere e crescere. La chiave di volta di questa spaccatura risiede nell’autenticità percepita delle diverse realtà: non è un caso che tutti e quattro siano ancora a conduzione familiare e si siano espansi più organicamente che aggressivamente, né è un caso che tutte e quattro le realtà siano aziendalmente stabili e continuative o che lavorino su un tipo di prodotto assai meno standardizzato di quello dei grandi gruppi divenuti nel frattempo giganti che più mangiano e più hanno fame. 

Da un punto di vista freddamente finanziario, rimane valido il principio enunciato anni fa da Tom Ford secondo cui il ready-to-wear è la decorazione che serve a vendere accessori e borse – ma la verità più astratta è che in un’epoca di creatività atomizzata nel lavoro di mille team di design, mille team commerciali e uffici stile quello che vende è la personalità o, meglio, un certo gusto specifico. Mai come ora è importante che un brand, al di là del singolo prodotto, riesca a stabilire uno stile preciso e univoco che, sul piano del retail, non si riduca però a un capo che si può acquistare altrove in un mercato assurdamente saturo. In una parola, serve che i brand tornino verso dimensioni più autoriali, produzioni più artigianali e dimensioni più sincere. Il che è il motivo per cui tanti storici brand di lusso appaiono oggi più irrilevanti sul piano culturale: non solo il quiet luxury li ha resi intercambiabili tra loro ma l’assenza di un’autentica ispirazione singolare dietro a essi li rende terribilmente artificiosi. Più che a brand, gli amanti della moda si appassionano ai designer - non lo stendardo ma chi lo porta. Volendo fare un esempio, i pezzi di Miu Miu, che è il brand dal successo più stratosferico, possono anche risultare semplici presi da soli ma riuniti in una collezione presentano un gusto e un punto di vista molto precisi e difficilmente riducibili a una formula – lo stesso si dica per Zegna la cui sartoria, senza cedere a questo o quel trend, è semplicemente incredibilmente moderna e attuale; ma anche di Maison Margiela e del suo storico show di gennaio, che ha dato a tutti la sensazione di essere seduti in una stanza insieme a John Galliano. Inutile dire che nei confronti della tenure di Michele da Valentino si nutrono speranze identiche, se non superiori..