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Le scuole di moda stanno condannando i giovani designer al fallimento?

Oltre a saper creare un abito, bisogna sapere anche come venderlo

Le scuole di moda stanno condannando i giovani designer al fallimento? Oltre a saper creare un abito, bisogna sapere anche come venderlo

È vero che la maggior parte dei designer non sono i migliori imprenditori. Perché dovrebbero esserlo? Sono andati a scuola per imparare a creare un abito, non a fare un business plan, a pagare gli stagisti o ad analizzare i margini di profitto. Eppure, se si intraprende la strada di creare un brand da soli, ci si ritrova quasi sempre a fare dieci lavori in uno. Non sono solo designer, ma anche addetti alle vendite, manager, addetti al marketing, coordinatori di studio e così via. Recentemente, Jessica Testa ha scritto per il New York Times un articolo sulla designer Elena Velez. Sulla carta, la Velez ha nel suo curriculum tutte le scuole necessarie per sfondare nella moda: si è laureata alla Parsons di New York e a Parigi, e in seguito è andata alla Central Saint Martins di Londra per conseguire un diploma di laurea, e dopo gli studi ha fondato il suo brand con quasi 500.000 dollari di investimenti. Eppure, quando nell'articolo parla del suo stato finanziario, confessa di avere un debito di 90.000 dollari. La sua struttura aziendale instabile rende quasi impossibile la creazione di un team di lavoro con stipendi consistenti, per non parlare del pagamento di intern e apprendisti.

Quella che potrebbe sembrare una storia scioccante è in realtà la normalità per molti brand emergenti. La situazione di Velez non è affatto un'eccezione: la maggior parte dei marchi più piccoli con sede in una grande città ha problemi con il flusso di cassa o, per dirla in modo semplice, con il lato commerciale delle cose. L'attuale generazione di studenti di moda, che studia in istituti rinomati, è cresciuta intorno al mito di Galliano e di McQueen, al successo di Stella McCartney, alla nascita dell'avanguardia moderna ad Anversa con gli Antwerp Six e all'ascesa di marchi indipendenti come Charles Jeffrey o Christopher Kane, recentemente chiuso. Tutte queste persone sono storie di successo a sé stanti, che negli anni hanno invitato gli aspiranti designer a sognare offrendogli la speranza che anche loro un giorno potranno imporre la propria visione, stabilire un codice di design e persino diventare una superstar. Come ha detto una volta Rick Owens, «Gli stilisti sono le nuove rockstar.»
 

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Questo è il sogno che viene venduto ai giovani, un'illusione che li porta a passare notti in bianco e a respirare le critiche più dure. Nelle scuole di moda nessuno ti racconta di Bernard Arnault, si pensa che LVMH sia sinonimo di potere ma lo si osserva più come un potenziale datore di lavoro che come una minaccia. Inoltre, difficilmente si parla dell'altissimo numero di debiti che gli studenti si portano dietro per anni solo per studiare nelle scuole di moda più conosciute, dove tutto ruota intorno all'identità, alle idee, allo sviluppo creativo e alla sostenibilità. Quando si frequenta una scuola di moda come la Central Saint Martins, la Parsons o anche l'Institut Français de la Mode, tutto sembra possibile. Finché sei dentro ti senti in cima al mondo, ma appena esci il sogno inizia a sgretolarsi e la realtà comincia a farsi sentire. Un ex studente di una nota scuola di moda di Parigi, che preferisce rimanere anonimo, ha raccontato che i loro corsi non contenevano alcuna lezione di economia. Contrariamente a quanto accade in alcune scuole, molte spingono i loro studenti a trovare un lavoro presso una maison al fine di assicurarsi uno stage, piuttosto che cadere in acque profonde tentando di avviare un brand. Inoltre, l'intervistato stava pensando di avviare un brand, ma ha accantonato l'idea per mancanza di competenze commerciali. «Ho avuto molti riscontri positivi dopo il mio graduation show. Ma in tutta onestà, non saprei proprio da dove cominciare. Ho avuto esperienze diverse in realtà grandi e piccole, quindi penso che questo sia un vantaggio. Tuttavia, faccio fatica a capire come avviare un'attività da zero».

Anche alla Central Saint Martins le lezioni di business non facevano parte del programma di studi del Master. Alessandro Todolo, ex-allievo del corso di laurea in design della scuola, elogia il suo direttore di corso come estremamente saggio, sottolineando la sua speciale attenzione per quanto riguarda il design e la carriera. «Se glielo chiedi, ti dice cosa pensa che sia adatto a te o ti incoraggia», aggiunge. Alessandro è attualmente in procinto di avviare un proprio brand: ha 30 anni, e sente che se non lo facesse adesso potrebbe perdere l'occasione. Inoltre, la scuola ha organizzato alcuni incontri con Angela Farrugia, che si occupa di aiutare gli studenti a creare i loro brand fornendo consiglio sulla logistica, le tasse e le questioni legali, motivando i designer che, secondo lei, potrebbero avere un interessante potenziale, dice Alessandro. Tuttavia, la maggior parte dei corsi pone l'accento sullo sviluppo del design, sulla ricerca e sull'esecuzione generale delle collezioni. «Il 90% è legato al design», aggiunge. «È una laurea in design della moda, quindi capisco perché non insegnino business. Ma dovrebbero almeno metterci in guardia su quanto sia difficile guadagnarsi da vivere creando pezzi molto scultorei che non hanno un grande valore economico. Credo che molti studenti abbiano una visione un po' distorta di come funziona la moda». Quello che sta sottolineando Alessandro è forse l'aspetto più importante per il futuro dei giovani designer. Per quanto una collezione possa essere bella, infilata nei manichini delle vetrine migliori al mondo, una visione realistica del sistema moda rimane necessaria, soprattutto per salvare molti giovani talenti prima che si buttino a capofitto in una realtà totalmente idealizzata.