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Ha davvero senso boicottare il fast fashion?

Perché l’attivismo online non riesce a tradursi in azioni concrete

Ha davvero senso boicottare il fast fashion?  Perché l’attivismo online non riesce a tradursi in azioni concrete

Nelle ultime settimane è circolato molto su Instagram un post dell’attivista @dilettabellotti che invita al boicottaggio di Zara e insieme ad esso di tutti i brand fast fashion. La call to action nasceva in occasione dell’anniversario della tragedia di Rana Plaza, il crollo di una fabbrica tessile in Bangladesh avvenuta sette anni fa in cui persero la vita 1.138 persone che avevano già denunciato le difficili e spesso pericolose condizioni in cui si trovavano a lavorare. Il ricordo del più grave incidente mortale avvenuto in una fabbrica tessile nella storia coincideva inoltre con la diffusione della notizia che tra le fabbriche fornitrici di Zara erano stati scoperti dei dei campi di lavoro forzato nel nord ovest della Cina. 

Bellotti prosegue ad esplicare la propria presa di posizione attraverso cinque punti: tutto ciò che non è certificato non è etico; i brand che hanno delle sotto marche sostenibili non sono comunque etici, si chiama greenwashing; se avete dubbi su quello che acquistate chiedete alle case di moda di certificarsi, tracciando la loro catena di produzione; non c'è nessun motivo plausibile per supportare aziende che sfruttano le persone; informate e sensibilizzate le persone vicino a voi. Un'opinione assolutamente condivisibile, che tenta però di riassumere in assunti semplicistici e risolutivi una questione ben più complessa e di difficile risoluzione. Perché, come spesso accade quando si trattano questi temi, si finisce per mettere insieme e mischiare problemi diversi tra loro - in questo caso l'etica e la sostenibilità - che se presentati nel modo giusto creano la solita indignazione occidentale efficace sui social ma sterile nella realtà. 

Non è un segreto che negli ultimi anni la sostenibilità sia diventata l’argomento più discusso (e sbandierato) dell’industria della moda, una sorta di chimera irrinunciabile nella narrazione di ogni brand, che tuttavia può rivelarsi un’arma a doppio taglio: da una parte perfetta per un rebranding rivolto alle nuove generazioni, che dall’altra deve però tradursi in azioni concrete e cambiamenti strutturali, pena l’accusa di greenwashing. Nonostante altisonanti prese prese di posizione, sia da parte dei brand che da parte dei consumatori, i dati non mentono: come riportava anche nss magazine ad ottobre, la pandemia non ha distrutto il fast fashion, tutto il contrario. 

Come si colma quindi la distanza spesso incolmabile tra le grandi volontà professate online e ciò che effettivamente compriamo? (Sempre se sia fattibile). È impossibile ignorare il fatto che ciò che leggiamo online, soprattutto in queste pagine di attivismo politico e sociale, sia diventato una bolla sempre più distante dalla realtà, e lontana dalla maggior parte della popolazione. Un problema che interessa anche altri tipi di attivismo, come ad esempio il nuovo femminismo italiano, che non molto tempo fa si era dovuto scontrare con una realtà televisiva ben lontana dai propri propositi digitali. Ma come spesso accade, uscire dalla bolla è pressoché impossibile e cascare nel mero compiacimento per la rettitudine delle proprie azioni è inevitabile, fallendo così nel tentativo di parlare ad un pubblico più ampio e variegato, non riuscendo a guardare oltre il proprio naso. 

Al di fuori di quella bolla - che è anche la nostra dei media del settore -, inoltre, ci sono persone che non sanno nemmeno cos’è la sostenibilità, o ancora, a cui l'argomento non interessa. Non solo per questioni economiche, e quindi la possibilità pura e semplice di poter comprare solo ciò che è fast e quindi cheap, ma anche estetiche, di gusto e di quantità. Il sogno di un guardaroba minimalista composto da soli 33 capi - una challenge che gira molto su Instagram - non può e non deve essere imposta come diktat assoluto, con che diritto si può dire ad una persona che non può possedere 10 t-shirt o comprare 15 gonne ogni mese? Il suo acquisto non da comunque lavoro a delle persone? 

Diventa molto difficile cercare una soluzione concreta ad un problema, o quanto meno intraprendere azioni individuali per arginarlo, se la narrazione della questione non è univoca e soprattutto semplice: non ha senso invocare temi enormi come lo sfruttamento dei lavoratori, mettendo in discussione il capitalismo stesso, insieme alle istanze per la sostenibilità. Ne risulterà sempre un quadro confuso, difficile da comprendere anche per chi a questi temi vuole avvicinarsi. Quest’anno di pandemia ci ha insegnato davvero a fare degli acquisti più etici e sostenibili? Forse abbiamo imparato solo a come diventare attivisti online, continuando con le nostre abitudini di shopping lontano da Instagram.