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Hong Kong, la rivoluzione e l'estetica della protesta

Il linguaggio della rivoluzione, attraverso gli abiti dei manifestanti

Hong Kong, la rivoluzione e l'estetica della protesta Il linguaggio della rivoluzione, attraverso gli abiti dei manifestanti
Fotografo
Kim Ng

Nel luglio del 2019, la PHXBUY - una società di corrieri del Guangdong fra le più popolari di tutta la Cina - rivela di aver ricevuto una nota dalla dogana cinese contenente una lista di prodotti che non potevano più essere esportati verso Hong Kong:

«Sono inclusi elmetti gialli, ombrelli gialli, bandiere, pennoni, banner, guanti, maschere, t-shirt nere, aste di metallo, tubi fluorescenti, mazze. Non possiamo prendere in consegna i prodotti di cui sopra… Grazie del supporto».

Solo qualche mese dopo, ad ottobre, un'inchiesta del South China Morning Post aveva rivelato come anche altre grosse compagnie di corrieri, come la EXPRESS, avevano ricevuto simili divieti, riguardanti anche altre categorie di oggetti, che venivano spesso rallentate o bloccate nel loro viaggio verso Hong Kong. Più d’ogni altra cosa però, sono state le magliette nere l’emblema dell’embargo, diventando il simbolo mediatico di un evento che ha avuto gravi impatti anche sul mercato del retail di Hong Kong: «secondo Kayla Marci, market analyst di Edited, i rivenditori del mercato di massa di Hong Kong hanno ritirato i loro assortimenti di magliette bianche negli ultimi tre mesi rispetto al mese precedente. La percentuale è diminuita del 30 per cento, trainata principalmente da una riduzione delle magliette da uomo, mentre i nuovi arrivi di magliette nere sono aumentati dell'11 per cento», scrive Zoe Suen su Business of Fashion. Quello commerciale, però, è solo uno degli effetti delle rivolte di Hong Kong. 

A partire dal 9 giugno, in un climax crescente di intensità, gli abitanti di Hong Kong hanno cominciato a protestare contro le misure messe in atto dal governo di Hong Kong e dal suo leader, Carrie Lam dietro le pressioni del Governo Cinese. L’insieme di queste misure permetteranno nel 2046 di completare la transizione dal “one country, two system” messo in atto nel 1997 (quando cioè il Regno Unito ha ceduto Hong Kong alla Cina) a un sistema che vedrà una Hong Kong completamente controllata dal Partito Comunista Cinese. Tutto è scaturito da una proposta di legge di estradizione che, se in vigore, darebbe facoltà al governo di Hong Kong di espatriare i detenuti, soprattutto politici, in Cina. Non è difficile immaginare perché le proteste siano esplose e si siano aggravate dopo, il ritiro dell'emendamento proposto dal governo. 

Nonostante la continuità geografica, le radici culturali dei due popoli non potrebbero essere più diverse. Un sondaggio condotto dall’Università di Hong Kong dal 1997 al 2016 chiedeva agli abitanti maggiorenni di Hong Kong con quale gruppo etnico si identificassero, e il 68% rispondeva “abitanti di Hong Kong” e non “cinesi”., Tra i più giovani l’appartenenza percepita alla cultura cinese è ancora più bassa, ed è arrivata quasi allo 0% nel 2019. Come ha scritto Vivienne Chow  sul Post«Cambiare le tradizioni di Hong Kong - inviando ogni anno centinaia di migliaia di impiegati statali a Hong Kong ad esempio - non li farà amare la Cina».

Diversi media sono concordi sul fatto che gli eventi di Hong Kong siano un grosso fallimento per il Partito Comunista Cinese, che si è inimicato un’ intera generazione cresciuta sotto l’influenza della bandiera rossa ma che non si è mai sentito parte dello stato cinese. Un dissidio che nelle violente rivolte di queste settimane, in cui migliaia di giovani sono stati arrestati (più di 6mila, stando ai rapporti ufficiali) è stato spesso simboleggiato da una maglia nera.

Il nero è diventato in poco tempo il simbolo visivo della resistenza di Hong Kong, il “colore della protesta”, come titola un articolo di Vanessa Friedman sul New York Times. «Il nero rimane una forma molto importante di “oppositional dress», scrive il Dr. Erin Vearncombe. Nel pezzo di Friedman trovano spazio anche le dichiarazioni di due ricercatori dell'Università di Brighton, secondo i quali: «La capacità unicamente affettiva, dichiarativa e performativa dell’abbigliamento ha fatto sì che lo stesso abbia funzionato a lungo come elemento comunicativo centrale per l'attivismo politico e le richieste di riforme sociali. L’abbigliamento è stato spesso usato per formare una "resistenza non verbale" mai così evidente come negli ultimi tempi». Come evidenziato da Friedman, il nero è stato storicamente il colore della protesta: esempi storici sono il movimento dei Black Panther, i Black Bloc e, più di recente, gli appartenenti al movimento “Time’s Up” ai Golden Globe 2018. Inoltre, come ha detto il Dr. Tommy Tse, Professore di media e cultura al dipartimento di Sociologia della University of Hong Kong a Business of Fashion«Crea un forte effetto visivo nelle foto aeree realizzate dai media, simboleggiando un senso di unità e determinazione contro un stato di polizia soppressivo che non ha precedenti». Il nero dunque riesce a creare un’ estetica fondamentale nell’era della comunicazione digitale, in una battaglia che si gioca anche nel campo delle ideologie e della comunicazione.

Anche le maschere hanno subito assunto un ruolo fondamentale per la lotta contro le autorità. Ad ottobre, durante la diciottesima settimana di proteste, Carrie Lam ha annunciato il ban totale delle maschere in strada, utilizzando una vecchia legge dal retaggio coloniale per bypassare le normative vigenti che consentiva agli abitanti di Hong Kong - soprattutto per motivi di salute - di indossare maschere in pubblico e durante manifestazioni pubbliche. «Crediamo che la nuova legge crei un deterrente efficace contro i manifestanti mascherati più violenti», aveva detto Lam. Le maschere servivano e servono ai manifestanti di Hong Kong per evitare le tecniche di riconoscimento facciale altamente sofisticate a disposizione del governo cinese. Come ha spiegato Fortune infatti, la Cina è leader mondiale nel campo dell’intelligenza artificiale, con già quattro diverse startup che si occupano di IA valutate a più d’un miliardo.

Il riconoscimento facciale viene quotidianamente utilizzato  per «aiutare i cittadini a portare fuori la spazzatura, tenere d’occhio studenti che si addormentano in classe o persone che passano con il rosso - inoltre, l’IA sta permettendo alla Cina di profilare un largo segmento della minoranza etnica Uiguri». Nonostante il ban imposto dallo stato, la gente continua a indossare maschere, perché? «A causa della sorveglianza della polizia» ha detto in una intervista Bonnie Leung, ex-leader del Civil Human Rights Front, mentre Dennis Kwok (attivista politico pro-democrazia) ha fortemente rigettato i paragoni tra i ban alle maschere in paesi come la Francia o gli USA, ritenendoli pienamente democratici,  mentre a Hong Kong non esiste un singolo organo esecutivo o legislativo eletto dal popolo. Hong Kong Free Press - uno dei pochi media indipendenti e in lingua inglese - ha raccontato di una sorta di evoluzione dell outfit da protesta ad Hong Kong, partita dal 2014 - in quella che venne definita la “rivoluzione degli ombrelli” (che venivano utilizzati sia come riparo dal sole cocente sia per difendersi dalla polizia) - è arrivata a includere quello che sui media è stato chiamato “full gear”: elmetti colorati, ombrelli, occhiali e maschere antigas . Come sottolinea il Washington Post, «per tutti gli abitanti di Hong Kong, questa è una checklist di equipaggiamento protettivo necessario per partecipare o documentare le proteste che hanno fatto precipitare il territorio semi-autonomo dalla Cina in una crisi politica».

Le maschere sono gli item più diffusi in assoluto, necessari sia per difendersi dai gas che dai colpi che vengono sparati dalla polizia ad altezza d’uomo e che ad agosto hanno quasi fatto perdere un occhio a una manifestante, diventata ben presto uno dei simboli della resistenza di Hong Kong. Le ripercussioni sono spesso state anche più gravi duranti i lunghissimi mesi di protesta, «in aggiunta, tante delle vittime sono giovani manifestanti, e le circostanze delle loro morti sono sospette».

Parecchie delle cause di quelle morti sono da ritenersi controverse e difficili da ricollegare alle cause elencate come ufficiali. Il New York Times ha messo in evidenza tutte le contraddizioni interne a una protesta che, secondo i leader di Hong Kong, non sarebbe appoggiata da tutti. Tuttavia, durante le elezioni locali tenutesi lo scorso 24 novembre, questa retorica divisiva è venuta indiscutibilmente meno: 71% degli aventi diritto di voto si sono recati alle urne, dove i candidati pro-democrazia hanno raggiunto la maggioranza in ben 17 distretti su 18. Una vittoria schiacciante, netta, che sembra raccontare una storia diversa da quella che la Cina vorrebbe sentire e che mette leggermente da parte questa supposta discrasia. Un discrasia sembrerebbe soprattutto generazionale, e non è un caso se uno dei centri nevralgici delle proteste siano stati proprio le università. I giovani abitanti di Hong Kong, perfettamente cosmopoliti ed abituati a vivere in una città che negli anni si è fatta conoscere per la folle gentrificazione, affitti sfrenati ma soprattutto per la vibrante attività culturale, finanziaria e artistica difficilmente riusciranno ad adattarsi a uno stile di vita, quello cinese, così diametralmente opposto al loro. Non resta loro, dunque, che combattere.