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Sorrentino e l’arte perduta di rispondere alle critiche

Il miglior antidoto al nostro cronico problema di presunzione

Sorrentino e l’arte perduta di rispondere alle critiche Il miglior antidoto al nostro cronico problema di presunzione

Oltre alla connessione globale e alla diffusione della conoscenza, una delle grandi rivoluzioni di Internet è stato trasformare il pubblico del web in un’enorme platea divisa in tifoserie organizzate. E quando le informazioni sono tante e le certezze poche, è facile non solo schierarsi acriticamente o ipercriticamente da un lato che in fondo ci siamo scelti perché ci piaceva; ma anche trasformare il reame della cultura pop in una sorta di Game of Thrones dove o si vince o si muore. Case in point, il recente festival di Cannes dove l’unico film italiano in gara, Parthenope di Paolo Sorrentino, non ha ricevuto alcun premio: se la stampa aizzava gli animi con i classici toni un po’ campanilistici; le critiche non proprio generose che il film ha ricevuto non sono state spesso nemmeno lette perché, essendo contrarie a uno dei monumenti nazionali del cinema italiano, non potevano essere corrette – è colpa di francesi, inglesi e americani che non capiscono, sono troppi intellettuali, troppo snob… ognuno ha la propria scusa. Di fronte al dibattito generatosi online, Sorrentino si è comunque dimostrato molto nonchalant, come al suo solito, sia entrando in sala a fine proiezione con l’aria sorniona che lo rende così simile a parecchi dei suoi personaggi; sia commentando la sua mancata vittoria facendosi ritrarre stesso come morto sulla spiaggia di Cannes con una frase di Stevenson a mo’ di epigrafe: «Il nostro compito nel mondo non è avere successo ma fallire nelle migliori condizioni di spirito possibile». Un tocco umoristico che mostra come il regista prenda atto della situazione senza drammi o egoismi ma, anzi, con serena leggerezza – caso che ultimamente, nell’era dei beef grandi e piccoli, è diventata un’arte del tutto perduta.

La situazione non può non far pensare a un altro grande cineasta napoletano, Totò, che in un video risalente al 1969 e che è tornato a circolare sui social grazie a @gentlemen_of_italy risponde alle critiche direttissime di un giornalista che lo interroga sul declino di qualità dei suoi film con un’eleganza e un garbo che ormai non sembrano essere di questo mondo. Oggi, in effetti, la maleducazione e la sfacciataggine di pubblico e artisti da un lato e l’iper-accessibilità garantita dai social dall’altro abbassa notevolmente la qualità del dibattito. Il risultato è trasformare il dibattito su un film o un album in un'infantile gara di superiorità morale: la controdifesa-base che Disney usa quando il pubblico si lamenta di problemi di sceneggiatura e scelte artistiche fuori dai canoni del franchise è definire i fan “tossici” (esempio supremo: l’enorme disastro che è oggi Star Wars) appigliandosi a una vuota segnalazione di virtù; è anche molto popolare deflettere completamente le critiche senza prendere atto di cosa il contestatore stia dicendo mentre si vedono spesso artisti dribblare da un argomento all’altro dicendo che un certo film era fatto così apposta e via dicendo.

La cosa che nessuno fa, come faceva Totò nel video che menzionavamo prima, è ammettere di non aver prodotto il proprio lavoro migliore; dire di non essere perfetti o comunque, da un punto di vista dialettico, concedere un minimo livello di validità alle tesi dei critici. Importante nota semantica: ai giorni nostri, il concetto di “critica” e di “giudizio” sono sempre intesi nel senso negativo, la critica è un’offesa, il critico un avversario. Chiaramente il problema è a doppio taglio: se da un lato produttori e registi devono difendersi dalle critiche, dall'altro molti "critici" si trasformano rapidamente in "hater" attaccando attori e registi su questioni personali, insultandoli gravemente al di là degli obiettivi della critica artistica. E mentre entrambe le parti generalizzano e si incolpano a vicenda scendendo nella pura faziosità, la critica smette di avere come oggetto il prodotto artistico e diventa un veicolo di gretti personalismi. La divisione estrema del dibattito online ci impedisce di esprimere valutazioni sfumate per cui, diciamo in un film, funziona in alcune parti ma non funziona bene in altre – deve piacere o no. Un atteggiamento culturale collettivo che registi come Christopher Nolan e Zack Snyder hanno cavalcato. Il primo, rispondendo a chi diceva che i suoi film erano privi di emozione, ha detto: «A quanto pare faccio film che funzionano come test di Rorschach», sottintendendo in pratica che se Dunkirk non piace il problema non è del suo lavoro ma del pubblico.

Zack Snyder invece, di fronte a chi ha detto (con ragione) che il suo Rebel Moon è disastroso, non ha parlato delle sue scelte artistiche, di cosa poteva essere fatto meglio ma scrollando le spalle ha detto: «Non ho una vera e propria confutazione delle recensioni. Per qualche ragione, la reazione ai miei film è molto polarizzata, e lo è sempre stata. Il film non sembra contenere molte cose che giustifichino una reazione così viscerale» a chi criticava il suo Batman vs. Superman ha invece detto che molta gente «aveva subito un lavaggio del cervello». E cioè una non-risposta. Anche qualche tempo fa, il regista di Squid Game aveva risposto, a un commento molto casuale di LeBron James che aveva detto di non aver amato il finale della serie, con un secco: «Se ha un finale tutto suo che lo soddisfa, forse potrebbe fare il suo sequel. Lo controllerò e magari gli manderò un messaggio dicendo: “Mi è piaciuta tutta la tua serie, tranne il finale”». Di recente Ridley Scott è diventato il maestro di questo tipo di risposte: quando gli hanno fatto notare le migliaia di inesattezze storiche del suo Napoleon ha risposto con «Fatevi una vita». Tutte risposte che, insomma, potevano essere umoristiche e leggere, potevano essere più circostanziate ma suonano meschine, infantilmente risentite oltre che per nulla disponibili al dialogo.

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Di fronte alle critiche fatte a Parthenope, Sorrentino non si è ancora espresso pubblicamente, ma il pubblico ha già iniziato su Twitter (umoristicamente) a dire la propria con una risposta che sa molto di post-verità: «Non leggerò e non accetterò critiche». L’opinione, insomma, è pre-formata: non è concepibile che un grande regista faccia un brutto film (i cinefili della domenica si appiglieranno sempre al loro ultimo e più disperato rifugio: la fotografia) perché si parteggia per l’artista a prescindere. Ma se questo tipo di tifoseria è di solito riservato al pubblico, più interessato a “vincere” il dibattito che a determinare la verità attraverso il dibattito, adesso anche i registi e in più larga parte gli artisti, gli scrittori, i cantanti e i produttori hanno adottato quello stesso approccio di radicale autodifesa in cui non è ammissibile l’idea di non essere perfetti e inattaccabili. Per fortuna, almeno Sorrentino, con la sua solita laconicità, ci ricorda che non serve vincere per forza, ma saper perdere «nelle migliori condizioni di spirito possibile».