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Riusciremo a salvarci dalla FOMO del Fuorisalone?

Quest’anno non è ai mobili che tutti pensano

Riusciremo a salvarci dalla FOMO del Fuorisalone? Quest’anno non è ai mobili che tutti pensano

A pochi giorni dall’inizio del Fuorisalone (una falsa partenza, essendo che già da domenica sono iniziati cocktail e press preview varie) la parola che i giovani addetti ai lavori e partecipanti stanno ripetendo più spesso è “FOMO”. Il termine è diventato popolare in pandemia come acronimo di “Fear of missing out” ovvero la paura di perdersi qualcosa che diventa il movente di azioni e attività non molto sentite ma a cui ci si unisce per una sorta di panico sociale. Chi agisce spinto dalla FOMO agisce soffrendo, in un modo o nell’altro, non divertendosi quanto dovrebbe e, in generale, risponde più a un autoimposto senso del dovere che a un autentico interesse. E se la fashion week, con le sue porte chiuse e i suoi inviti esclusivi, alimenta tale sentimento negli addetti della moda, è la Design Week, che è invece aperta a tutti, a farne discutere il pubblico generale. Quando il pubblico social però discute di FOMO riferendosi al Fuorisalone lo fa con una specie di disincanto: se magazine e pubblicazioni varie suggeriscono come combatterla indicando feste e party in cui recarsi dopo il lavoro, esiste una corrente collaterale di persone che invece non vogliono assecondarla manifestando la propria disillusione nei confronti del Fuorisalone stesso. Il che non significa di certo che la Design Week abbia smesso di essere un momento eccitante – al contrario, è la settimana in cui Milano è più viva, in cui è più aperta al mondo e ricca di offerte. Non di meno è innegabile che la voglia che il pubblico generale manifesti nel girare per il Fuorisalone si vada coniugando, quest’anno più di altri, a un’anticipazione di stanchezza: sia nei confronti della confusione e del trambusto che regnano sulla città e sulle agende dei suoi abitanti; sia nei confronti degli ormai inevitabili e scontati contenuti social fatti proprio per dimostrare di “esserci”. Ma come stanno rispondendo le persone a questo sentimento?

Di fronte all’ansia di partecipare (o, come l’ha definita un utente di X, alla “premura di vivere”) innescata dal Fuorisalone alcuni hanno optato, come si diceva, per la strada della disillusione: «Sono sedie e scatole», pare che dicano, «non c’è bisogno di affannarsi troppo». Un tipo di reazione che in realtà indica come il pubblico, pur apprezzando profondamente le diverse iniziative, specialmente le più spettacolari o comunque rivolte all’intrattenimento di massa, percepisca che la vera FOMO è quella dei brand più disparati. L’ansia di partecipare di aziende o produttori che hanno anche solo marginalmente a che fare con il design si traduce troppo spesso, anche se non sempre, in installazioni deludenti, svolte come compiti in classe, in cui, nonostante un impianto di presentazione anche grandioso, c’è sorprendentemente poco da vedere.

@margheritaceci_ Fatemi sapere la vostra! Per me cosi è too much. #fuorisalone2024 #designweek #milanodesignweek #fashionweek suono originale - Margherita Ceci

E dato che in nessun’epoca come nella nostra i termini “artisti”, “creativi” e “installazione immersiva” sono diventati qualcosa di incredibilmente fumoso, non è difficile sentirsi un po’ cinici nei confronti di alcune iniziative che non solo offrono poco nei concreti termini dell’esperienza ma che con il design hanno anche attinenze stiracchiate. Né è insolito (e questo da molti anni) sentire la classica lamentela sulla fondamentale inconsistenza di alcune mostre o collaborazioni creative che non hanno altra motivazione a esistere oltre al presenzialismo di un committente chiaramente preso dalla FOMO anche lui. Il consumo forsennato e frenetico che il pubblico fa delle esibizioni e installazioni del Fuorisalone, poi, contribuisce a questo doppio senso di FOMO da un lato e disillusione dall’altro, che un altro utente di X ha riassunto con una frase fulminante: «Se la riconosci è una sedia, se non la riconosci è design». A indicare l’oscillazione tra proposte immotivate o semplicemente banali di cui si può al massimo attestare l’esistenza e altre proposte così concettuali o aliene che, in assenza di una vera mediazione critica, vengono osservate come altrettante stranezze e bizzarrie.

Il Fuorisalone è in fondo una rappresentazione di Milano: il prezzo da pagare per l’internazionalità è l’autoreferenzialità, quello per le quasi troppe cose da fare è la deludente massa di inutilità, per l’atmosfera elettrica che si respira in città è il sovraffollamento, quello da pagare, infine, per la bellezza di alcune esperienze sono l’intellettualismo pretenzioso di tanti progetti motivati solo dalla vanità. Non sorprende dunque che combattere la FOMO si traduca per molti nell’evitare tour de force onnivori attraverso ogni spazio o showroom pensabile per andare semplicemente dove si ha il tempo e la voglia – o meglio, come fanno altri, si riduca a vedere nella Design Week una specie di carnevale dove scroccare prosecco, andare a party nel bel mezzo della settimana o girare per aperitivi senza dover pagare l’ingresso come invece di solito invece accade. E in fondo sono proprio queste contraddizioni a restituire l'idea del dinamismo e della varietà di Milano - contraddizioni che raccontano bene la sua natura di "bolla" che esiste in una sorta di mondo e cultura a sè stanti. Per parafrasare Dickens, potremmo definire con saggezza e imparzialità il Fuorisalone dicendo: «It was the best of times, it was the worst of times».