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La crisi è della moda, non del lusso

Quando la fashion week perde il suo senso

La crisi è della moda, non del lusso Quando la fashion week perde il suo senso
Una delle ricorrenze che ha caratterizzato questa stagione della moda ha riguardato due designer tra i più amati dalla critica, Peter Do e Glenn Martens, che hanno sfilato con i rispettivi brand “corporativizzati”, Helmut Lang e Diesel, ma che hanno rinunciato a organizzare show per i propri progetti più indipendenti, ovvero il brand omonimo di Peter Do e Y/Project. Il che in una stagione dove anche a Milano diversi brand indipendenti e molto apprezzati come Cormio, Act N.1 o Andreadamo hanno preferito la presentazione alla sfilata – stessa strategia tenuta a Parigi anche da brand come Rochas, Quira e Paloma Wool. Tutte scelte interpretabili come il desiderio di investire diversamente gli ingenti fondi che di solito finiscono riversati in uno show da venti minuti circa. Il che è relativamente normale per brand più piccoli in un mercato della moda assurdamente saturo, ma diventa qualcosa di anomalo quando è un grande brand a rinunciare a un evento del genere: caso che si è presentato davvero questa settimana quando Dior ha annullato il destination show che aveva in programma per Hong Kong per «ragioni commerciali» non meglio specificate che sarebbe costato ben 12 milioni di dollari coinvolgendo più di mille visitatori VIP e i loro entourage. 
 
 
Se una macchina macina-miliardi come Dior rinuncia a uno show nel mercato numero uno del lusso, la Cina, la cui economia inizia a tossicchiare, la ragione è semplice: non gli conviene farlo. Ma pronunciarsi sull’economia cinese è complicato: secondo LVMH, le vendite di pelletteria sono cresciute del 30% a dicembre soltanto nella regione, i clienti appaiono raddoppiati rispetto al 2019 e il mercato del lusso nazionale, secondo CNBC, ha un volume d’affari che supera di poco i 56 miliardi di dollari. Si può pensare, forse, che proprio come in Europa si stia approfondendo la forbice tra i poverissimi e i ricchissimi (Reuters, ad esempio, scriveva lo scorso novembre che il 5% dei consumatori di lusso cinesi rappresentano il 35% delle vendite) seguendo la parabola ascendente dei prezzi del lusso che moltiplica gli introiti ma fa scendere il numero di clienti effettivi – insomma, la moda sta diventando ancora più elitaria che in passato. Ma più i design diventano commerciali e i prezzi inaccessibili più l’industria della moda perde in spessore artistico e si avvicina a una specie di fast fashion di lusso: quando il profitto è l’unico criterio da seguire, si gioca al rialzo coi mercati ma al ribasso con l’intelletto – minima spesa, massima resa. L’elevazione del quotidiano che è stata uno dei temi portanti delle ultime collezioni pare sempre meno una ricerca di essenzialità artistica e sempre più la glorificazione di design facili da produrre e vendere a prezzi inarrivabili.
 
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Proprio questa elitarietà, però, è stata anche un tema di accesa discussione per i pesi massimi del giornalismo di settore nelle ultime settimane, dato che il senso della moda si realizza nel suo consumo. Rachel Tashjian del Washington Post ha scritto quattro giorni fa: «Il mondo della moda non è una democrazia, anche se continua a dire di esserlo. I vestiti sono diventati oltraggiosamente, ridicolmente costosi [...] Questi vestiti sono uniformemente fuori dalla portata di quasi tutti, il che può far sentire la Settimana della Moda eccezionalmente irrilevante, persino "delirante", come mi ha descritto un critico. Il numero di designer che hanno parlato di "realtà" durante le interviste nel backstage di questa stagione è un'ironia aggiuntiva, anche se esilarante». Su The Cut, Cathy Horyn racconta che «negli ultimi tempi, molti direttori creativi parlano di ridurre il design elaborato e le tecniche artigianali per produrre una moda più realistica e "quotidiana". Ma l'industria, come al solito, vuole entrambe le cose. Pochi grandi marchi stanno riducendo i prezzi, che sono ormai fuori dalla portata della classe media - il gruppo che ha alimentato il prêt-à-porter firmato dagli anni '60 in poi. E i marchi europei sono entrati in una gara di ricavi per vedere chi riesce a superare il miliardo di dollari, poi i 5 miliardi e così via. L'amministratore delegato di un'illustre casa francese da 300 milioni di dollari l'anno mi ha detto che, di questo passo, la moda seguirà l'industria aeronautica con "solo un Boeing e un Airbus rimasti"». Angelo Flaccavento scrive, a proposito della Milan Fashion Week, che «è come se la moda, intesa quale collettività di sistema, tentasse una risposta, o forse meglio si giustificasse, di fronte alla annosa questione: in un momento così, a cosa serve tutto questo?». L’altro giorno Vanessa Friedman ha invece parlato di «una stagione della moda inquieta, in cui troppi stilisti si sono abbandonati al banale (guardate! un cappotto loden!)» Mentre persino sulle pagine del numero di marzo Vogue americano è spuntato un articolo che esprime perplessità di fronte a un lusso i cui prezzi non sono più giustificabili con la classica formula: «Si paga il brand». Per non parlare di come, lo scorso novembre, sia il Financial Times che il The New York Times abbiano dedicato articoli a una politica di prezzi fuori controllo che non segue più l’effettivo valore della merce.
 


Ora, il punto critico qui non è tanto l’innalzamento dei prezzi in sé, dato che il lusso è poco accessibile per definizione e che i prezzi variano anche in base a costi e tassi di interesse, ma il fatto che, più il lusso vende, più la moda si trova in crisi di identità. L’industria è divenuta un ambiente tanto economicamente ostile e le sfilate un evento così puramente performativo che, appunto, i brand che fanno le cose diversamente e operano in una nicchia ben determinata preferiscono non sfilare affatto, scavandosi spazi propri che possono fare tranquillamente a meno delle fashion week. Qualche esempio? Our Legacy, Camper, Marsèll, Studio Nicholson – persino Tekla è diventato un moderno brand di culto vendendo lenzuola e pigiami. Non di meno, la legittimità conferita dalle fashion week rimane fondamentale sul piano del riconoscimento culturale – il paradosso è che i brand che potrebbero non sfilare, sfilano; e che quelli che dovrebbero, preferiscono presentare. Disinteressate ai social, e con una dichiarazione d’intenti assai eloquente, le gemelle Olsen hanno fatto sfilare The Row a porte chiuse quest’anno, con il divieto di fare foto: c’è forse un elemento di snobismo, ma almeno il brand non finge alcuna democraticità allineando l’elitarismo dei prezzi e quello della comunicazione. All’inverso, l’altro giorno Saint Laurent ha fatto sfilare una collezione del tutto trasparente che probabilmente, eccetto cappotti e scarpe, non finirà nemmeno in produzione. Ma se non stiamo guardando quello che compreremo, cosa stiamo guardando esattamente? 
 


Tra un mercato troppo saturo di brand e una serie di prodotti tanto sostituibili e banali quanto esosi è emersa un’evidente contraddizione: se è il prestigio artistico e creativo che giustifica il prezzo elevato, come conservarlo lucrando su prodotti sempre più “facili” e commerciali? Se il prestigio è invece qualitativo, perché tanti brand dall’ottima qualità costano meno di quelli di lusso o quella stessa qualità si può trovare a buon mercato in un negozio vintage? Perché la qualità e il price point sono andati scollandosi tra loro in modo così plateale? Come si fa a parlare di “mondo reale” e “quotidianità” degli abiti quando ci si muove sempre più in alto nella stratigrafia dei mega-ricchi? Ma soprattutto, con l’emergere di brand di lusso in ogni angolo, qual è il valore intrinseco di un certo brand o di un certo prodotto? Tale valore spiega come mai un abito di viscosa costi quanto un’automobile? Le domande si accumulano, ma le risposte non vuole darcele nessuno.