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Non tutti i brand hanno bisogno di un direttore creativo

Quando il buon senso vale più della vision creativa

Non tutti i brand hanno bisogno di un direttore creativo Quando il buon senso vale più della vision creativa

Con una mossa che ha sorpreso molti, pochi giorni fa Bally ha interrotto la sua collaborazione con Rhuigi Villaseñor in quella che è sembrata essere una risoluzione consensuale del reciproco rapporto. La particolarità della vicenda non sta tanto nella notizia in sé (ormai siamo abituati agli addii inaspettati dei direttori creativi) quanto nella rapidità con cui il brand e il designer hanno deciso di salutarsi. Dopo solo un anno e mezzo dalla sua nomina, il founder di Rhude ha detto addio al brand svizzero lasciandosi alle spalle due show presentati durante la Milano Fashion Week e poco altro. Quello di Rhuigi è solo l’ultimo di una lunga serie di addii che rendono quanto mai attuale la domanda su quanto un brand abbia bisogno di avere un direttore creativo al suo comando. Nella moda di oggi, quella in cui si sgomita per trovare posto nella home dei siti di settore, un direttore creativo rappresenta sicuramente un espediente capace di mantenere alta l’attenzione su un brand, il catalizzatore mediatico capace di assolvere al ruolo di frontman in un mondo in cui il gioco di squadra sembra non essere visto di buon occhio. Dall’altro lato però, il direttore creativo è anche colui chiamato ad equilibrare le due anime che muovono un brand, quella artistica e quella economica, finendo troppo spesso per essere solo un ingranaggio all’interno di un sistema il cui verbo è e resta vendere. Non tutti hanno le spalle abbastanza larghe per poter sopportare il peso di un incarico del genere, tenendo in equilibrio valori come l’heritage, la creatività ma anche l’appetibilità del proprio operato senza sprofondare nel baratro dell’apatia creativa. Se la figura del direttore creativo è diventata sempre più complessa e instabile rispetto al passato, viene però da domandarsi quanto averne uno sia realmente una necessità che ogni brand deve assecondare e se invece non sia per certi versi il frutto di una frenesia figlia di quello che è la moda oggi.

A capirlo forse è stato Lanvin che, poche settimane fa, ha salutato Bruno Sialelli annunciando un periodo di interregno durante il quale, tra l’altro, sarà inaugurato Lanvin Lab, un progetto che vedrà coinvolti talenti da tutto il mondo come partner creativi che potrebbero somigliare per certi versi a dei guest designer. Qualcosa di simile l’ha fatta anche Louis Vuitton, che prima di annunciare Pharrell Williams come erede di Virgil Abloh, ha prima affidato le redini del menswear al team creativo del brand e poi ospitato KidSuper come ospite per una collezione presentata a Parigi. D’altro canto, la stessa scelta di Williams come direttore artistico è la prova di come anche il brand di LVMH abbia scelto di non affidarsi a un designer nella sua forma più classica, ma piuttosto a un nome capace più di catalizzare l’attenzione mediatica che di cucire un abito. Guardandosi indietro poi, gli esempi di co-gestioni creative all’interno di un brand sono molteplici, dalle più recenti imposte da cause di forza maggiore a quelle diventate parte della storia di un brand. Gucci, ad esempio, nel periodo di passaggio tra Alessandro Michele e Sabato De Sarno si è affidato al team creativo del brand che l’ha guidato fino a pochi giorni fa, mentre Maison Margiela dal 2009 al 2014 non ha avuto un direttore creativo vero e proprio in omaggio alla filosofia dell’anonimato che il founder aveva portato avanti per tutta la sua carriera. Lo stesso per Ann Demeulemeester, che dall’acquisizione di Claudio Antonioli fino alla nomina di Ludovic de Saint Sernin lo scorso dicembre si era affidato unicamente al design team interno, ma soprattutto per Bally, che prima di Rhuigi Villaseñor aveva prodotto collezioni collettivamente per diversi anni. 

Gli esempi sono molteplici, molti di successo, come quello di Loro Piana che lo scorso marzo, per bocca del suo CEO Damien Bertrand, aveva sottolineato quanto il brand non avesse alcuna necessità di scegliere un direttore creativo, nonostante alcuni rumor indicassero questo o quell’altro nome. «Loro Piana non ha mai avuto un direttore creativo, quindi per il momento non credo sia necessario perché la definizione della silhouette è già cambiata» aveva detto Bertrand, sottolineando come alcuni brand possano avvalersi del lusso di continuare a fare liberamente il proprio lavoro senza dover necessariamente cercare il colpo ad effetto da portare in passerella. Dopotutto per quale motivo l’acquirente di un brand che per anni ha fatto a meno di una guida creativa dovrebbe interessarsi al nome che progetta la collezione? La storia è piena di realtà che potrebbero vivere sganciate dai meccanismi pressanti del sistema moda ma che invece continuano a calarcisi in quello che somiglia sempre di più a un esercizio di autolesionismo. Ad oggi, quello che ci possiamo chiedere è quante altre scelte sbagliate servano prima di prenderne una risolutiva.