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Perché i brand stanno interrompendo i resi gratuiti

Tra le cause principali non solo l'interesse ambientale

Perché i brand stanno interrompendo i resi gratuiti  Tra le cause principali non solo l'interesse ambientale

Fino a poco tempo fa la norma voleva che i resi sui siti e-commerce fossero gratuiti. Per competere con giganti come Amazon, serviva una politica che invogliasse i clienti a comprare avendo la certezza di poter annullare il proprio acquisto senza impegno. Spinte dalle pressioni della crescente inflazione che ha influenzato negativamente le vendite, e dal recente aumento dei costi di spedizione e produzione, molte start-up hanno però messo in discussione i resi gratuiti. In uno sforzo mirato a tagliare le spese superflue sempre più aziende stanno scegliendo di far pagare i clienti per la restituzione dei prodotti acquistati, con la scusa di iniziative sostenibili che ridurrebbero, tramite meno impieghi di trasporto, l’impronta di carbonio. 

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L’anno scorso vi avevamo parlato di Zara, che nel mese di maggio aveva cominciato ad addebitare ai clienti del Regno Unito £1,95 ($2,44) per restituire gli acquisti online tramite corriere, ma non è stata l’unica: secondo un’analisi di Narvar, la piattaforma leader dell’innovazione e-commerce per la customer experience, nel 2022 il 41% dei 200 principali brand di successo americani ha introdotto la tassa di restituzione per posta. E se per alcuni questa policy si è rivelata proficua - l’azienda calzaturiera Paul Evans ha riportato una media di risparmio di oltre 100.000 dollari l’anno da quando hanno interrotto i resi gratuiti, ben cinque anni fa - per altri potrebbe essere controproducente. «Non è qualcosa che consiglierei ai commercianti,» ha spiegato a Bof Tasha Reasor, vicepresidente senior del marketing del software provider Loop Returns, «è una cosa discordante, alla fine bisogna rendere felici gli acquirenti». Per non perdere la fiducia dei clienti alcuni brand stanno cercando nuove alternative che, invece di immettere tasse aggiuntive, invogliano ad ulteriori acquisti. Un esempio è la policy del venditore di activewear Vitality, che dall’agosto scorso chiede una tassa di 6$, detratta dai rimborsi nell’eventualità di resi da parte del cliente, offrendo poi crediti del 5% da utilizzare sui prossimi acquisti nel caso fossero stati comprati nuovi prodotti al momento del reso. Secondo Vitality, questa policy ha portato i ricavi al 33% in più rispetto a quanto avrebbe altrimenti perso, contenendo allo stesso tempo il tasso di fedeltà dei clienti. 

È chiaro, secondo le mosse della maggior parte dei brand che hanno rimosso la possibilità di restituzione gratuita, che l’interesse di queste aziende non è tanto l’ambiente, quanto i ricavi, e che ancora una volta il marketing si dimostra capace di aggirare a parole il cliente, sfruttando la sostenibilità e le cause sociali come mezzo per invogliare all’acquisto. Malgrado questo, esistono brand più attenti, che certi di non voler rinunciare alla free return policy hanno preparato un piano promettente, che mira a diminuire il tasso di restituzione nel suo complesso con maggiore trasparenza. Aumentando il numero di foto, aggiungendo video specifici e inserendo ordini fatti su misura, risulta rara la possibilità che un prodotto non soddisfi l’acquirente, anzi motivandolo a ritornare sul sito nel caso in cui il primo acquisto sia andato a buon fine.