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La moda è sempre più come il calciomercato

Pronti a piazzare le vostre scommesse?

La moda è sempre più come il calciomercato Pronti a piazzare le vostre scommesse?

La bolla della moda ha vezzi tutti suoi. Uno di questi, quando un direttore creativo lascia un brand, è quello di ipotizzare dove andrà subito dopo e quale nuovo designer potrebbe prendere il suo posto. Un meccanismo che ricorda da vicino quello del calciomercato, dove fan e addetti ai lavori si lanciano in previsioni e ipotesi basate su avvistamenti e gossip spesso abbastanza implausibili. Di recente questa frenetica curiosità è stata rivolta su Alessandro Michele che, lasciato Gucci, è stato al centro di ipotesi che lo volevano ora da Chanel, ora da Bulgari, ora da Lanvin e via dicendo. C’è stato anche il lungo anno in cui tutti i nomi immaginabili sono stati fatti per la direzione creativa di Louis Vuitton, che è poi finita in mano alla persona che nessuno si aspettava. La verità è che, come pubblico, siamo abituati dai social a una vicinanza quotidiana e illusoria con questi designer e vorremmo sapere tutto sulle loro prossime mosse - un po’ come gli appassionati seguono la carriera di un calciatore. La segretezza che i brand e i designer mantengono su queste operazioni, protette da una spessa cortina di NDA, serve solo ad aumentare questa frenetica curiosità. Anche i giornali di settore amano queste notizie che, tra l’altro, hanno il potere di far alzare o crollare le azioni di un brand in borsa – dimostrando che dietro a tanta speculazione si nasconde un media value la cui presenza è invece assai concreta. 

@ideservecouture Where should Alessandro Michele go next after leaving Gucci? #gucci #alessandromichele #fashiontiktok #chanel #fashionforyou She Share Story (for Vlog) - 山口夕依

Questo tipo di attenzione dimostra, in una certa misura, come oggi la moda sia diventata una vera e propria forma di intrattenimento: dopo tutto il calciomercato è sia l’insieme di contrattazioni per il trasferimento di un calciatore che l’industria che ruota intorno a queste contrattazioni. In un mondo in cui il pubblico generale è spesso più vicino allo storytelling del brand  sui social media che ai suoi abiti, sapere di chi sarà la mano che firma questa o quella collezione (o addirittura saperlo in anticipo) è quasi meglio che acquistare i prodotti veri e propri. La verità, però, è che quando un direttore creativo viene assunto, i motivi non sono quelli che il pubblico si aspetterebbe: se da questo lato del velo la audience vede la leggenda e la mitologia della moda e presume che un certo direttore creativo venga assunto in base ad affinità estetiche e artistiche, i recruiter del brand guardano ai dividendi, ai risultati, all’efficienza e in generale a un numero di aride questioni tecniche e contrattuali che prosciugherebbe l’ispirazione anche al più idealista degli appassionati. Il fascino della moda risiede nell’ingenuità di chi vi partecipa – ingenuità che è per metà consapevole e per metà no. Una tendenza interessante comunque si riconosce nella maniera in cui oggi, in cerca di concretezza e realtà che vadano oltre le illusioni del marketing, il pubblico si leghi maggiormente ai singoli designer che, come conseguenza, si portano dietro un following più o meno ampio: Phoebe Philo è fuori dalle scene da anni ma mantiene un seguito che si allarga sempre di più, lo stesso valeva per Virgil Abloh e vale per Alessandro Michele. 

C’è da aggiungere, comunque, che la situazione attuale del mondo della moda alimenta parecchio quest’atmosfera “da calciomercato”. Oggi, quattro dei più importanti e collaudati designer dell’industria, Michele, Tisci, Kris Van Assche e Jeremy Scott, non sono allocati in alcun brand - a tutti gli effetti sono degli svincolati di lusso. Se fino a poco prima della scomparsa prematura di Virgil Abloh sembrava che dovessimo abituarci a un nuovo establishment che sarebbe durato in eterno, dopo di essa gli apparenti pilastri della terra sono stati scossi e il gioco delle sedie musicali è ripartito. Il ricambio di direttori creativi ha portato nuovi volti e nomi sulla scena, facendo salire in alto designer indipendenti come Ludovic De Saint Sernin ma anche lasciando disoccupati direttori creativi che avevano dominato la cultura del decennio precedente. A questo si aggiungono, oltre ai soliti NDA, anche i contratti di non concorrenza che magari impediscono a questi designer di lavorare per un determinato lasso di tempo, costringendoli a non potersi sbottonare sul proprio destino finendo per alimentare dubbi e supposizioni sempre più selvagge - ma nemmeno una settimana come questa, in cui due brand celebri come Moschino e Trussardi hanno perso i propri direttori creativi in rapida successione, fa credere che questa sia la fine delle notizie eclatanti che sentiremo. 

Infine, questa ossessione per quale direttore creativo finirà in quale brand sottolinea anche come, seppur uniche a modo proprio, l’identità del designer vada sempre più scollandosi da quella del brand - se nell’era degli autori della seconda metà del ‘900 designer e brand erano una cosa sola, adesso, nell’era del calciomercato, possiamo immaginare uno Chanel di Alessandro Michele, un Louis Vuitton di Wales Bonner e un Loro Piana di Phoebe Philo. Non che la cosa sia un male in se stessa, ma è chiaro che, a partire da una serie di elementi basilari caratteristici di ciascun brand e sempre ricorrenti, l’identità di un marchio è sempre più astratta e liberamente reinterpretabile. Il che è anche il meccanismo alla base delle “ere” dei brand, come il Gucci di Tom Ford o il Dior di Hedi Slimane o il Louis Vuitton di Marc Jacobs, che, per l’appunto, in assenza di volute citazioni da parte dei successori, rimangono spesso isolate nella propria identità come tanti brand indipendenti. Persino tra il Bottega Veneta di Daniel Lee e quello di Blazy ci sono differenze abissali - e non solo i due periodi sono contigui, ma Blazy lavorava con Lee come Head of Design. Il che, di nuovo, non è un male ma fa sembrare remotissimi i tempi in cui la narrazione della moda era concentrata su singoli autori/fondatori. Ovviamente, ai tempi, il calciomercato non c’era: se fondavi un brand, lo dirigevi creativamente. Sia come sia, ieri come oggi i designer rimangono idolatrati come atleti - c’è chi tributa a Martin Margiela, Alessandro Michele o Virgil Abloh lo stesso estatico culto che ancora si tributa a Maradona. Resta solo da capire quanti, nel calciomercato della moda, hanno le stesse capacità di un Maradona.