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Kanye West e noi

È troppo facile ricondurre tutti gli errori di Kanye solo alla sua condizione psichiatrica

Kanye West e noi È troppo facile ricondurre tutti gli errori di Kanye solo alla sua condizione psichiatrica
Fotografo
Aymane Alhamid

Lo slogan di “White Lives Matter” è comparso per la prima volta sulla scena americana a partire dal 2015. Reso popolare dal gruppo suprematista bianco texano Aryan Renaissance Society (il cui solo nome basterebbe a spiegarne i principi) si è poi diffuso tra vari gruppi minori affiliati al Ku Klux Klan. Lo slogan nasce come violenta controparte del Black Lives Matters, il movimento BLM che aveva invaso le strade americane dopo gli omicidi di Trayvon Martin prima e Eric Garner poi. Di White Live Matters si è parlato spesso, anche se raramente lo slogan ha attraversato il confine statunitense. Almeno fino a quando non è arrivato Kanye West

Durante la strana e a tratti assurda presentazione della Yeezy Season 9 Kanye ha indossato, fatto indossare a Candace Owens e ai suoi modelli una sorta di t-shirt commemorativa del Giubileo di Papa Giovanni II sulle cui spalle era scritto “White Lives Matter”. Il motivo per il quale Kanye abbia scelto di realizzare quella tee non è esattamente chiaro, parrebbe addirittura che nessuno dei presenti - dai modelli agli invitati - fosse a conoscenza di una decisione a detta di molti improvvisa e inattesa. Lo stesso Kanye si è rifiutato di commentare in quanto il capo “parla da sé". L’intera gestione dello show è stata, dopotutto, caotica: Kanye ha cominciato con più di un’ora di ritardo, dopo aver dapprima litigato con una agenzia PR, salvo poi trovarne una all’ultimo minuto che lo ha aiutato con quello che è stato uno show sicuramente straniante, per alcuni versi ipnotico, per altri molto problematico. Durante lo show Jaden Smith, insieme ad altri, è uscito dalla sala all’incipit del delirio di Kanye e all’apparizione della maglietta. Subito dopo Edward Enninful e Gabriella Karefa-Johnson si sono scagliati contro West, accusandolo di un comportamento inaccettabile e sottolineando come mancassero i principi per definire l'installazione artistica di Kanye anche solo provocatoria. 

Nei giorni successivi la situazione non ha fatto altro che degenerare: su Instagram, Kanye si è accanito prima contro la stessa Karefa-Johson, attraverso una bambinesca offesa personale, e poi contro LVMH - mettendo nei guai Matthew Williams con un post poi rimosso. Ha parlato di Arnauld, ha tirato in mezzo la memoria di Virgil e ha definito il Black Lives Matter uno “scam”. È difficile mettere ordine alla miriade di esternazioni di Kanye, complesso ricostruire la logica dalla quale derivano, ma assolutamente impossibile non notare l’erroneità della loro forma e sostanza. Osman Ahmed su i-D che aveva dato ampio spazio allo show quasi in esclusiva ha scritto:

«È pericoloso sottovalutare il potere della moda di comunicare al mondo. Questa maglietta ha già dato ragione a un'intera fetta di popolazione che crede nella supremazia bianca e che ha rilanciato l'hashtag #WhiteLivesMatter con notevole entusiasmo. Ora hanno un timbro di approvazione per dichiarare le proprie opinioni come una dichiarazione di moda, e questa maglietta diventerà probabilmente un oggetto di ideologia politica facilmente replicabile». 

La levata di scudi del sistema moda e della black community al suo interno è stata immediata e per certi versi molto più puntuale e forte rispetto alle precedenti folli esternazioni di Kanye. Karefa-Johson è d’altronde una delle più stimate giornaliste di moda al mondo, lo stesso vale per Enninful. A suscitare ancora più clamore è stato il post di Tremaine Emory, fresco di nomina a direttore creativo di Supreme, che si è scagliato contro Kanye in difesa della memoria di Virgil Abloh, chiamato in causa proprio da Kanye. Secondo Emory, Kanye era, in sintesi, estremamente e brutalmente geloso del successo di Abloh. I due non erano per niente in ottimi rapporti tanto che Kanye non sarebbe stato invitato al funerale privato di Abloh. Emory è una di quelle figure che gode di un rispetto infinito all’interno dell'industria e della black community - una black community dalla quale Kanye non si è mai sentito accettato e che, in fondo, Kanye non ha mai rappresentato. E il rapporto di quella comunità e di Kanye West in quanto afroamericano e designer, con l’industria della moda, è molto più intricato di quanto sembri. Tutto questo, e il fatto che tutto questo accada proprio in fashion week, non è casuale. 

Per poter davvero comprendere il rapporto di Kanye con la moda bisogna fare un rapido passo indietro a quella famosa fotografia scattata proprio a Parigi nel 2008. Vengono ritratti Kanye insieme a Virgil e Don C, in look che sono quanto di più lontano dalla moderna visione di loro stessi che oggi abbiamo. Quella foto è diventata storica perché ha segnato l’ultimo momento in cui Abloh e West sono stati “esclusi” dal circuito che più conta del fashion business. Era quello lo stesso periodo in cui Kanye accusava il mondo della moda di essere razzista, di essere troppo bianco, e di respingere la sola idea di un designer nero. Off-White era appena nato, e Virgil era lontano dal rivoluzionare completamente il concetto di moda. Lo stesso vale per Kanye, che col tempo è arrivato così tanto in alto da essere musa e sodale di quello che è oggi forse la più influente mente di tutto il circuito: Demna Gvasalia. Kanye aveva tanta ragione al tempo, quanto ha torto oggi. Quel circuito era razzista, e ci è sicuramente voluto un movimento di proporzioni globali come il Black Lives Matters per far sì che lo fosse un po’ meno, che esistessero i Virgil Abloh e gli Edward Enninful di questo mondo. E se è ipocrita che una parte del sistema moda (quella bianca) chiami oggi razzista Kanye, è allo stesso tempo impossibile non notare come sia proprio quel movimento che oggi Kanye definisce scam la ragione principale per cui oggi, Kanye West riesce a paralizzare la capitale mondiale della moda per un evento annunciato all’ultimo minuto. 

Non in tutte le storie esistono i buoni e i cattivi, e questa è una di quelle. Il Kanye West che stiamo conoscendo oggi non è altro che una versione estremamente esasperata di quello che abbiamo sempre conosciuto, che si può riconoscere dalle immagini di jeen yuhs, il documentario che ne racconta l’ascesa. È troppo facile ricondurre tutti gli atteggiamenti sbagliati di Kanye sempre e solo alla sua certificata malattia mentale; così come però è giornalisticamente folle ritrovarsi qui ogni volta che Kanye West ne dice una più sbagliata della volta precedente. Forse i tempi sono diversi, ma tra “Slavery was a choice” e “BLM was a scam” non esiste tutta questa differenza, dopotutto. I media mainstream hanno costruito attorno a Kanye una piattaforma di risonanza che faceva comodo a tutti, una piattaforma che si alimentava del più banale espediente retorico artistico di sempre: genio e sregolatezza. Oggi Kanye è andato oltre, la scorie della morte di Virgil Abloh e il vuoto di tutto quello che Virgil ha rappresentato sono solo benzina su un incendio che non si poteva evitare e che è stato appiccato nello stesso momento in cui Kanye West ha cambiato il mondo della moda, rivoltando come un calzino, e costringendo tutti a giocare al suo stesso gioco. 

I giudizi morali su Kanye West sono ovviamente immediati, quello su cui forse dobbiamo interrogarci sono i giudizi morali su noi stessi. Abbiamo permesso - a torto o ragione - che questo fosse il mondo di Kanye West e abbiamo voluto fortemente farne parte. Oggi quel mondo brucia e le sue fiamme potrebbero non essere così facili da domare proprio perché non riguardano solo Kanye West, riguardano noi.