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La moda, i meme e tutto il resto: intervista a Pietro Terzini

L’artista visuale ci ha parlato di creatività, del mondo digitale e di come i bar siano l’ultimo baluardo della cultura

La moda, i meme e tutto il resto: intervista a Pietro Terzini L’artista visuale ci ha parlato di creatività, del mondo digitale e di come i bar siano l’ultimo baluardo della cultura

Semplicità e ironia sono le due principali caratteristiche dell’arte di Pietro Terzini. I suoi slogan scritti come graffiti sui packaging e sui loghi dei più celebri brand di moda, tutti pubblicati sulla sua pagina @friday.fries, sono diffusi un po’ ovunque su Instagram – specialmente un fotomontaggio che ha per protagonista la boutique di Hermès in Via della Spiga che possiede al momento 40.600 likes solo nella sua pagina originale e chissà quanti repost.

Ma l’arte di Pietro si estende su più format, più supporti e più generi: che siano finti screen di poetici DM, graffiti (sia veri che photoshoppati) di aforismi metaironici stampati su palazzi e cartelloni, fotomontaggi di dipinti o celebri scene del cinema, ma anche sneaker o i quadri veri e propri di cui il suo studio milanese è pieno – tutto è materiale d’ispirazione per Pietro, per cui la metaforica tela bianca su cui dipingere è la nostra cultura pop.

Per la sua capacità di essere cross-settoriale strizzando l’occhio ai meme, in maniera più naturale e istintiva che macchinosamente intellettuale, e soprattutto per la sua maniera di mettere in discussione con il sorriso la nostra società, parlando dei paradossi del consumismo e dell’amore nell’era dei social network, l’arte di Pietro sembra un perfetto contraltare alla cultura pop moderna e pre-fabbricata delle strategie di marketing e dei comunicati stampa a comando. Ed è per farci raccontare meglio il suo percorso artistico, la sua carriera e i suoi punti di vista sulla creatività ai tempi del digitale, che abbiamo intervistato Pietro Terzini. 

Il tuo stile come artista è apparentemente semplice ma molto smart nel suo uso di citazioni e capovolgimenti ironici. Come si è sviluppato? È stato il risultato di un’illuminazione o ci sono state fasi intermedie?

Mi fa sorridere parlare di un mio stile! Avrei voluto troppo avere un’epifania improvvisa! In realtà quello che sto producendo adesso è una fase di un processo “del fare” iniziato da una vita. Come chiunque altro, anche io ho sempre avuto un’urgenza espressiva. Da bambino ero in fissa con Michael Jordan, penso di aver disegnato il logo dei Chicago Bulls un milione di volte! Alle medie giocavo a basket e in fondo al bus ascoltavo Lose Yourself e In Da Club. Poi alle superiori quando ho visto il video di Fabolous Breathe ho scoperto Evisu e BAPE. Penso Fosse il 2004, con lo streetwear è stato amore a prima vista, non l’ho mai più abbandonato. A 14 anni, con scarso successo, producevo basi musicali hip hop e ho visto nascere la scena italiana, mentre Kanye West iniziava la sua ascesa mondiale e collaborava con Kaws e Takashi Murakami. In quegli anni ero letteralmente una spugna e ho assorbito tutto fino all’ultima goccia; il mio background culturale parte da lì, poi ho studiato architettura.

Al Politecnico le mie influenze street e afroamericane hanno subito un’improbabile contaminazione con il minimalismo degli anni 20 e l’arte astratta. In questo crush culturale Mark Rothko mi esaltava quanto Niggas in Paris e Mies Van Der Rhoe e Alvaro Siza per me erano figure mitologiche quanto Pharrell e Timbaland. Lì ho iniziato a dipingere. Prima quadri astratti, poi graffiti. Era tutto molto confuso e random, ma creare qualcosa di mio mi aiutò ad affrontare una fase della vita in cui vedevo il futuro sfocato e incerto. Non ho mai fatto l’architetto e nel 2016 il fato ha voluto che entrassi in una delle più innovative New Media Agency del mondo in ambito moda. Nella creazione del mio immaginario questa è stata una tappa fondamentale. Lì ho scoperto Instagram e il potere della condivisione. Per anni ho sperimentato nell’arte digitale sulla mia pagina Friday.Fries cercando un mio linguaggio senza mai trovarlo ma intuendo l’importanza di 2 ingredienti che ritengo chiave: la sintesi e la semplicità.

Penso che la semplicità sia l’ultima sofisticazione del nostro tempo e talvolta il risultato più difficile da raggiungere. Tutto il mio lavoro consiste in un incessante labor limae per togliere il superfluo e arrivare all’essenza delle cose, e raramente ci riesco! I miei ultimi lavori si generano proprio dalla mia ricerca di sintesi e semplicità. La sintesi è cognitiva e deriva dall’associazione di mondi apparentemente inconciliabili che trovano un punto di incontro nell’opera attraverso un processo di contrapposizione o provocazione. La semplicità è nella tecnica di esecuzione elementare. Il risultato è un remix in chiave contemporanea del bagaglio di reference culturali che ho collezionato sin da bambino con output fisici da condividere in un ambiente digitale come quello di Instagram.

Gran parte della tua produzione ha al suo centro l’iconografia della moda. Fra tutti gli ambiti della cultura pop, credi che alla moda manchi l’autoironia?

Se la moda fosse autoironica quello che faccio non avrebbe la stessa portata. Immagina le persone più autoironiche che conosci, scommetto che sono anche le più intelligenti e più sicure di sé che tu abbia mai incontrato. Lo stesso vale per i brand. Certo ci sono dei brand autoironici, mi viene in mente Moschino, tuttavia la strategia generale dei luxury brand mi sembra essere stata quella di abbracciare in chiave commerciale mission e cause più generiche, senza mai veramente prendersi in giro. Sarebbe divertente che qualcuno sdoganasse questo tema!

I meme sono probabilmente il fenomeno culturale del decennio. Hanno avuto un ruolo nel definire la tua produzione come artista visivo? Secondo te è giusto considerare i meme una forma d’arte?

I meme per me sono senza ombra di dubbio una forma d’arte, tra l’altro tra le più concettuali ed intelligenti. Quello che più mi piace dei meme è l’immediatezza e la semplicità, che come ho detto è veramente l’ultima sofisticazione della comunicazione. Sono convinto che tra 50 anni si parlerà del fenomeno dei meme non soltanto in ambito artistico quanto anche in quello letterario come forma di nuovo ermetismo dei primi decenni del XXI secolo.

Cosa pensi del fenomeno degli NFT e di come l’arte digitale sia stata catapultata da Instagram dentro al mercato?

Il mercato degli NFT è sicuramente in fase di bolla nel far west ma allo stesso tempo non si può tornare indietro! L’asta di Christie's lo ha consacrato e per la prima volta i digital artist possono essere finalmente considerati artisti a tutti gli effetti. Nei prossimi anni il sistema degli NFT avrà sicuramente un impatto sul concetto tradizionale di galleria, di show e di collezione d’arte. Sono curioso di vedere cosa verrà considerato arte nei prossimi anni e dove si spingeranno i confini dell’arte digitale. Staremo a vedere!

Quali sono oggi i posti più creativi di Internet secondo te?

I posti più creativi del mondo sono i bar. Quando alle elementari facevi qualcosa da non fare e la maestra ti diceva «Non siamo mica al bar» ecco che elevava il bar a posto magico dove potevi fare quello che volevi. Le persone che più geniali che conosco le ho incontrate di notte nei locali, ed è lì che sono nate le  idee migliori. Nel mio caso la migliore creatività nasce dallo scambio schietto di idee tra persone, anche sconosciute, in un ambiente informarle del tutto privo di sovrastrutture sociali e culturali: contano solo le idee. Poi ci sono i libri. Ne ho sempre comprati tantissimi, specialmente monografie. I libri sono un pozzo senza fondo di spunti e ispirazione. Poi c’è l’amore! Quanto ispira fare tutto quello che fai sperando che Lei lo veda? E poi, al quarto posto, c’è internet. Instagram è sicuramente una fonte di ispirazione così come Tik Tok, tuttavia negli anni queste piattaforme hanno raggiunto un livello di omologazione dei contenuti veramente imbarazzante. In ambito creativo se stai cercando qualcosa di veramente fresco e innovativo raramente lo troverai su internet, piuttosto sarà uno sconosciuto a mostrartelo dalla gallery del suo Iphone fuori da un bar.

Il tuo post di Hermès che è diventato virale sembrava un’installazione site-specific ma era tutto digitale. Una dimostrazione di come in realtà l’arte può essere o diventare tutto, o essere applicata su tutto – tu fra l’altro decori coi tuoi artwork anche le tue scarpe. Credi che l’arte dei nostri tempi si muoverà in questa direzione in futuro? E cioè che diventerà sempre più una “firma” o “patina d’autore” da declinare in diversi linguaggi e su diversi supporti, fisici e non, proprio come i loghi su cui fai ironia?

In realtà oggi l’arte mainstream è già questo. Pensa a Kaws, Takashi Murakami o Damien Hirst. Gli elementi grafici più pop che sono alla base loro immaginario sono talmente forti da poter customizzare qualsiasi cosa, proprio come il logo di un brand. Penso che i processi creativi dei prossimi anni potrebbero prendere sempre più spunto dai vecchi, ma sempre attuali, processi dell’architettura regionalista che ha posto al centro del discorso il tema del contesto. L’analisi del contesto geografico e temporale, sia in ottica globale, sia locale, rivela infatti relazioni nascoste e può così ispirare idee non solo fresche e originali, ma anche rilevanti, senza cadere nella trappola dell’autocitazione e del manierismo. Il principio che ha guidato la realizzazione del post di Hermès è stato proprio questo.