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Perché il Pride merch ha un look così scadente?

I colori dell’arcobaleno, forse, non sono abbastanza

Perché il Pride merch ha un look così scadente? I colori dell’arcobaleno, forse, non sono abbastanza

Agli albori del mese di giugno, come ci ha ricordato il tweet controverso di Elon Musk, i nostri feed cominciano a tingersi di arcobaleno. E assieme a loro anche le vetrine dei negozi, le stampe sulle t-shirt, i loghi aziendali e i packaging di cosmetici e fast food. Il 27 e il 28 giugno del 1969, in seguito ad una retata della polizia di New York allo Stonewall Inn, noto locale gay di Manhattan, la comunità omosessuale fu protagonista di un crescente moto di rivolte, che sfociò, l’anno seguente, lungo le strade di Chicago con il primo Pride della storia. I moti di Stonewall vengono celebrati durante tutto il mese di giugno con marce e parate dell’orgoglio LGBTQIA+, rivendicando legislazioni meno discriminatorie e promuovendo i principi dell’accettazione sociale. Valori inclusivi ed egualitari che si riuniscono sotto un unico simbolo dal 1978, anno in cui Gilbert Baker The Gay Betsy Ross (attivista gay ed ex veterano dell’esercito) ed Harvey Milk (il primo politico statunitense dichiaratamente omosessuale) dipinsero e cucirono una bandiera arcobaleno per il San Francisco Gay Freedom Pride Parade.

Sesso, vita, guarigione, luce solare, natura, magia, pace e spirito: i colori dell’arcobaleno racchiudono nei loro pigmenti un messaggio d’amore universale, che prese vita attraverso i meravigliosi abiti da drag realizzati a mano da Baker ed un team di trenta attivisti. Ma ciò che oggi rimane di questi capi di altissima manifattura è una moltitudine di prodotti di dubbio gusto e qualità, raggruppati sotto il massimo comune denominatore del rainbow washing. Da note aziende d’arredo che esibiscono divani “bisex” in limited edition, a colossi del fast fashion con collezioni basic declinate in color arcobaleno, fino a packaging di sandwich e merendine con messaggi accomodanti stampati sulle etichette: il merch dedicato al Pride sta diventando sempre meno credibile, raggirando il concetto di “gay friendly” con strategie di marketing superficiali e sbrigative. Ed assieme alla superficialità si fa strada anche una sorta di appropriazione culturale, come nel caso emblematico di Act Up, il primo gruppo militante a sostegno dei malati di HIV, i cui slogan di protesta sono stati fagocitati e riproposti dai giganti del pronto moda sotto forma di stampe e decori pop su magliette e felpe.

Dopo il pinkwashing e il blackwashing, ora è il turno del rainbow washing, che oltre ad essere una tattica aziendale futile e priva di risvolti pragmatici, sembrerebbe remare contro ai concetti di varietà - identitaria ma anche estetica - della comunità LGBTQIA+. La corsa pazza al mese di giugno delle industrie creative rivela una scarsa cura delle collezioni dedicate al Pride, e si riversa in una serie di prodotti massimalistici e glitterati che lasciano sempre meno spazio alla creatività e all’innovazione. È come se, da qualche anno a questa parte, l’immaginario comune dell’estetica queer si fosse modellato attorno ad un mucchio di item prodotti in serie, il cui messaggio si fa sempre più debole e banale mentre l’impatto visivo diviene sempre più violento. Un’arma a doppio taglio che non fa che rinvigorire i pregiudizi nei confronti delle minoranze sessuali, oltre che a scaturire una serie hashtag e meme esplicativi su come realmente si veste - o vorrebbe vestirsi - una persona queer: non tanto con la sfacciataggine di Borat in mankini technicolor, ma piuttosto con la disinvoltura di Harry Styles in camicetta di pizzo. Ciò che emerge dall’impatto di questi prodotti è che, in realtà, il target medio di una t-shirt la cui stampa recita frasi come “Love is Love” oppure “I Am Gay And I Slay”, non sia la comunità gay stessa, cioè il “denaro rosa”, bensì tutti quegli eterosessuali che in qualche modo desiderino mostrarsi solidali alla causa. Per questo motivo, unito al fatto che molte multinazionali non abbiano interesse e/o tempo di approfondire la storia della cultura queer, negli ultimi anni il Pride merch non ha fatto altro che suscitare l’indignazione della comunità LGBTQIA+, beneficiando dell’interesse “superficiale” di un pubblico cis-etero.

Eppure, l’iconografia gay è costellata di simboli storici interessanti ed intrisi di significato, che vanno ben oltre alla classica bandiera arcobaleno. Basti pensare al garofano verde, cioè “il fiore dell’amore” che ha dato il titolo al romanzo scandalistico di Robert Hitchens sulla relazione tra Oscar Wilde e Lord Alfred Douglas, oppure al “Codice Hanky”, in cui si utilizza una bandana per rendere nota la propria preferenza sessuale. E ancora, le violette donate alla donna per cui si prova desiderio saffico, la subcultura leather e la doppia luna bisex. Il lavoro di ricerca dovrebbe essere molto più accurato per chiunque voglia rivolgersi in maniera autentica alla comunità LGBTQIA+, durante il mese del Pride: in un momento tanto celebrativo quanto atteso, i manifestanti dovrebbero sentirsi liberi di esibire sfacciatamente l’orgoglio per ciò che sono, ma anche per ciò che indossano. Ma il desiderio di vendere spinge sempre più brand ad adottare slogan riduttivi e mainstream, che nella maggior parte dei casi svolgono un effetto repellente sulle comunità rappresentate, ma garantiscono un’altissima visibilità all’azienda e a chi li indossa. E alla mezzanotte del 30 giugno, come per magia, è tutto finito per lasciare spazio ai saldi estivi.