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La moda post-moda

Qual è il futuro dei fashion show?

La moda post-moda Qual è il futuro dei fashion show?

Cosa possiamo aspettarci dall’imminente fashion week milanese? Niente, o meglio niente di nuovo. Il fashion month è iniziato e ha portato con sé le stesse domande che prive di risposte sono diventate problemi. Due giorni fa il New York Times ha raccontato come Dilara Findikoglu, uno dei nomi più attesi del calendario londinese, pochi giorni prima dell'inizio delle sfilate e dopo mesi di preparazione, abbia deciso di annullare il proprio show. La designer che ha vestito Margot Robbie per le première di Barbie ha deciso di disertare last minute di fronte alla consapevolezza che, nonostante la fama, «non abbiamo le finanze per una sfilata in questo momento». E se Elizabeth Paton sul NYT rivela le difficoltà finanziarie che affliggono gli stilisti, Cathy Horyn su The Cut lancia l’allarme sulla creatività e sullo stato di abbandono in cui versano i giovani talenti. Tutto il settore percepisce unanimemente la stanchezza e l’anacronismo di una struttura che da oltre cento anni a questa parte è rimasta uguale a se stessa, eppure, nessuno propone un modello diverso per superare l’impasse. Noi ci abbiamo provato, invitando 15 designer al tavolo in una conversazione che ha spaziato dai business model al paradosso della produzione in un mondo al collasso, in una digital cover intitolata Beyond Fashion. Qui di seguito riportiamo invece la nostra visione, come magazine e come azienda, dopo più di 10 passati a vivere e documentare l’industria.

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Era il 1911 quando Charles Worth inventò a Parigi i “manichini viventi”, dando vita ad un evento che avrebbe racchiuso in un’unica stanza le personalità più influenti del settore. Ad oggi la digitalizzazione ha permesso a tutti di entrare “nella stanza”, il mito dell’esclusività e dell’elitarismo si è infranto contro il muro delle vendite e nelle prime file i giornalisti sono stati sostituiti dai TikToker. Sorge dunque spontaneo chiedersi: come può il fashion show essere funzionale alla creatività, al messaggio e ai valori veicolati dal suddetto brand? Fagocitati da un calendario ricchissimo, dalla competizione e dallo spotlight che circonda i big brand, i designer emergenti spendono più di 30 mila euro a stagione per mettere 40 modelle in linea retta in un evento che, nella maggior parte dei casi, ha poco di memorabile. Se il fantasmagorico show di Pharrell Williams a Pont Neuf ha attirato celebrità e VIC (Very Important Client) da tutto il mondo per presentare una nuova narrativa, difficilmente un emergente potrà mai avere un millesimo dei fondi necessari per lasciare il segno. Da un lato i big brand non hanno bisogno di quattro appuntamenti annuali per restare rilevanti, dall’altro un designer emergente ne gioverebbe, se le modalità fossero differenti e se non si perdessero tra altre centinaia di migliaia di designer emergenti.

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Se guardiamo al Fashion Show come preludio della campagna vendite, la diatriba ricade invece sui modelli di business. In una società in cui l’inflazione ha raggiunto il massimo storico e il fast fashion continua a mietere incassi record, i designer hanno davvero bisogno di una triangolazione che riduce ulteriormente i profitti? Dal direct to consumer al B2B, le strade per ridurre tempi e denaro sono in realtà molteplici, specie in un periodo storico in cui è la community online il vero traino di un brand. Forse siamo nell’era del tramonto del retail, tanto quanto è agli sgoccioli la figura del creativo così come la conosciamo. Paul Helbers, stilista per Margiela e Jacobs, ha confessato che «i giovani stilisti con talento non vengano visti perché non hanno le caratteristiche necessarie per i grandi marchi. Le case più grandi vogliono qualcuno che sia bravo nello storytelling, esperto di digitale - qualcuno che abbia una presenza pubblica, che sappia coltivare un seguito, che abbia riferimenti culturali che coinvolgano il pubblico globale. E, allo stesso tempo, che abbia rispetto per il lato commerciale e il marketing. Tutti i marchi sono alla ricerca di questo. È un unicorno». Oggi le aziende sono macchine con strati e strati di persone che lavorano alla maglieria, alla sartoria o alla ricerca sui tessuti, e ci sono anche i team marketing e merchandising, che hanno le loro idee sui modelli.

Quindi il lavoro di un direttore creativo è meno legato alla progettazione vera e propria dei capi. I grandi brand hanno sacrificato i sogni per il marketing: il quiet luxury ne è l’emblema, come il gioco delle sedie ai vertici dei brand, da Gucci ad Ann Demeluemeester. Sono alla ricerca di un testimonial e di un project manager piuttosto che un direttore creativo. La moda che fa sognare, che trascende la realtà regalandoci mondi immaginifici e scenari di escapismo ha perso tutta la sua potenza evocativa, un po’ perchè abbiamo già avuto Galliano e McQueen, un po’ perchè la creatività, per dialogare con la realtà e rendersi manifesto di un bisogno sociale, deve affermarsi per la sua funzionalità. Non abbiamo bisogno di un giorno in più o di un’altra Fashion Week che celebri l’ego creativo indebitato dei giovani designer, bensì di una struttura che ne sostenga le idee e i progetti mettendo al primo posto le nuove generazioni. In un mondo al collasso non c’è più spazio per i sogni, c’è solo spazio per il cambiamento e che sia radicale.