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«La critica di moda è morta»: intervista a Tim Blanks

L'ora mentore del corso in Fashion Writing and Curation del Polimoda parla del futuro della scrittura di moda

«La critica di moda è morta»: intervista a Tim Blanks L'ora mentore del corso in Fashion Writing and Curation del Polimoda parla del futuro della scrittura di moda

«Non sono mai stato un patito di moda, per me verrà sempre prima la musica», così si presenta Tim Blanks, editor-at-large di Business of Fashion, durante il nostro incontro a Firenze. Tra David Bowie e Christian Lacroix, la conversazione con Blanks si è spinta dagli inizi della sua carriera fino allo stato dell'arte della critica di moda oggi, passando per il suo ruolo di mentore per il corso di Fashion Writing and Curation Master del Polimoda. Nel contesto idilliaco di Villa Favard, l'editor nato a Auckland trasmette una tranquillità celestiale durante la conversazione, nonostante sia una delle figure che ha fatto la storia del fashion journalism, raccontando show epici come Dior by John Galliano e sedendo dietro le quinte mentre Cindy Crawford si cambiava a ritmo di musica.

Blanks racconta con lucidità il suo punto di vista sul futuro del settore, parlando di come il sistema sia sovraccarico e abbia quindi bisogno di «vivere una sorta di apocalisse per tornare in contatto con la natura e riconfigurare le sue priorità», un pensiero radicale che dimostra come gli addetti ai lavori siano stufi di vedere le stesse cose da anni. Ma non è sempre stato così per Tim Blanks, avvicinatosi alla moda per lavoro e poi rimasto nel settore perchè affascinato dal carattere imprevedibile della creatività e dal continuo dover cercare di codificare una conversazione intima di una mente che si materializza tramite capi, allestimento, musica, coreografie e personalità.

«Per scrivere bisogna ascoltare, capire e saper raccontare a parole proprie il significato tangibile dell'arte di qualcun altro», ci dice Blanks raccontando le basi di un ruolo, quello del giornalista di moda, cambiato radicalmente nel corso degli anni. Complice la dominazione digitale, tutti hanno accesso allo stesso tipo di informazioni. Mentre parla Tim Blanks sembra una figura a metà tra un docente e un saggio, non un critico di moda come lo hanno sempre etichettato, e quando glielo dico, sgrana gli occhi scuotendo il capo. «La critica di moda è morta» mi risponde in tono serafico, confermando che la vena critica che classifica sempre in modo negativo il lavoro degli altri non esiste più, si è evoluta, come la conversazione sulla moda oggi.

«Potrei dire che qualcosa è brillante, ma non mi permetterei mai di dire che qualcosa fa schifo. Non è mai stato il mio stile» dice evidenziando quella che non è solo una vocazione personale, ma anche una deriva di un mondo che ha ormai quasi paura a scrivere in maniera positiva di qualcosa. Nello scenario che supera le riviste di moda come strumenti di comunicazione informativi e trasforma la carta stampata in preziosi feticci da custodire, il modo in cui si comunica la moda deve cambiare, diventare più umano e personale.

Scrivere di moda oggi significa fotografare un momento con il compito di raccontarlo non solo a chi non ha la possibilità di viverlo di persona, ma anche a un pubblico che magari vuole avvicinarsi a un mondo che ancora non conosce a fondo. «Le recensioni delle passerelle non interessano più, su Business of Fashion contano sempre meno» ci confessa Blanks evidenziando un cambio ormai innegabile anche negli interessi di chi legge una rivista di moda, che sia cartacea o digitale. Per questo, nella discussione sul vero peso della critica oggi, ho suggerito a Tim Blanks di vedere The Menu, il film di Mark Mylod in cui si affronta anche la vacuità del giornalismo - in questo caso culinario - nel momento in cui diventa un puro esercizio di stile personale. Un pericolo che, seguendo le parole di Blanks, non corrono le studentesse che hanno presentato i loro progetti finali durante la serata e che, secondo la penna di BoF, «hanno «una curiosità innata».

Nella maestosa Villa Favard, oggi sede del Polimoda, i lavori di Maria Callaba, Rhiti Choudhury,  Heide Julie Halama e Florina Jacqueline hanno regalato agli ospiti esperienze coinvolgenti, multisensoriali e anche divertenti. Partecipare all'esposizione è stato un esercizio per vedere oltre la mera rappresentazione oggettiva e interrogarsi sul significato personale delle varie installazioni. La stessa cosa che ha sempre fatto Tim Blanks nei suoi anni di carriera: «Christian Lacroix mi ha chiamato per anni "il suo terapeuta" perché attraverso la mia scrittura poteva leggere a parole ciò che il concetto che aveva in testa rappresentava per il mondo», racconta ridendo, mentre senza rendersene conto sintetizza in una frase uno degli obiettivi chiave della scrittura di moda. 

Blanks negli anni ha vestito molteplici ruoli: ha saputo essere fashion reporter, fashion editor, terapista improvvisato, editor-at-large e adesso è un mentore, il volto a cui gli studenti del Polimoda fanno riferimento quando si parla di curatela e scrittura di moda. La sua figura porta ai giovani creativi di domani i racconti di un mondo che oggi non esiste quasi più, e che lui stesso avrebbe voluto godersi maggiormente. La parola chiave da non dimenticare nell'evoluzione però dice Blanks, è empatia, un valore fondamentale per identificare «punti di contatto con quello che si ha davanti e per capire le sfumature di significato dietro creazioni e collezioni», una chiave di lettura che la scrittura di moda non deve perdere.