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Perché i brand non aprono più negozi d’archivio?

Per avere successo nel secondhand, bisogna stare alle regole del pubblico

Perché i brand non aprono più negozi d’archivio? Per avere successo nel secondhand, bisogna stare alle regole del pubblico

Oggi, a Brooklyn, nella strada che fa angolo con Carroll Park, aprirà il nuovo archive store di Stussy. Il negozio rimarrà aperto per tutto il mese di giugno, venderà item storici del brand, passate collaborazioni, ma anche artwork e oggetti d’arredamento e sarà, in breve e con rispetto parlando, una sorta di ricchissimo svuotatutto che promette di trovare affari pazzeschi, pezzi di culto e anche gemme nascoste in quelli che presumiamo essere i magazzini senza fondo del brand. L’esperimento non è una cosa nuova per Stussy: il primo archive store venne infatti aperto a New York sotto forma di pop-up per soli tre giorni nel 2018 e il successo fu tale che il brand ne aprì uno permanente in California, a Santa Ana, soltanto il mese successivo. La decisione di Stussy di trasformare il proprio archivio (e supponiamo, con una punta di cinismo, anche il proprio invenduto) in un’esperienza retail a sé stante, che fornisca magari anche il brivido dell’ignoto al cliente che ci entra come in un negozio vintage, risulta lungimirante. Tanti brand e anche diversi retailer multimarca online hanno iniziato a esplorare le proprie possibilità con i propri abiti d’archivio – iniziative del genere però hanno avuto un successo moderato, principalmente perché quando un brand vende un proprio capo lo fa a prezzi che comunemente non sono accettabili nel mondo del secondhand. La verità è che nella moda siamo giunti al punto in cui il mercato degli abiti di seconda mano non è più un semplice hobby della domenica ma una gigantesca galassia commerciale che alla moda istituzionale non piace per nulla.

Elenchiamo qualche caso recente, senza pretese di completezza: il più eclatante è di certo quello di Rickie De Sole, figlia del potentissimo Domenico De Sole, che lascia il posto di vice-direttrice moda da Nordstrom per entrare nel consiglio di amministrazione di Vestiaire Collective; questa settimana invece non solo un articolo di Grazia UK titolava orgogliosamente How One Fashion Editor Bought A Designer Wardrobe On Vinted, Saving Thousands ma su Twitter un’utente ha fatto notare che un capo di haute couture di Dior di qualche anno fa è in vendita a un prezzo superiore a quello di parecchie automobili; mentre il resell per pezzi Y2K di Abercrombie & Fitch e Forever21, brand da grande magazzino, ha iniziato a toccare le centinaia di euro nel Regno Unito.

Un recente articolo di Vogue Business, riferendosi al caso di un paio di shorts di Forever21 rivenduti a 200 euro su Depop, parla addirittura del fenomeno del flipping – il trick, per altro molto diffuso tra i “cronicamente su Vinted” di acquistare un certo capo usato a pochi euro per poi rivenderlo per cifre molto superiori su piattaforme come Vinted, Vestiaire Collective o Depop. Insomma, nel 2024 comprare secondhand non è più un’opzione secondaria ma la prima scelta. Quando, in un evidente stato di negazione, gli alti ufficiali dell’industria dicono che i problemi economici dell’intera industria non derivano affatto dai prezzi ormai folli raggiunti dalla merce, preferendo giustificare i problemi con ragioni macroeconomiche, stanno volontariamente ignorando il fatto che un’intera generazione di potenziali clienti compra quello che vuole su Vinted, Vestiaire Collective e piattaforme simili e non per salvare il pianeta (anche se l’ecologia fa sicuramente sentire meglio al momento dell’acquisto) ma perché banalmente costa poco, non si devono affrontare le croniche assenze di taglie e prodotti delle boutique di lusso, non ci si sente in imbarazzo a guardare l'etichetta del prezzo sotto lo sguardo di un venditore sorridente che ci segue come un elicottero della polizia in GTA. Non solo è comodo e conveniente, ma passare tempo a scrollare queste app è qualcosa di simile al gaming, quasi si giocasse a una slot machine.

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Ma torniamo per un attimo a Stussy e al suo archivio. Negli anni Stussy ha prodotto davvero di tutto ed è oggi considerato lo Chanel dello streetwear, tanto più che i suoi prezzi (benchè saliti negli ultimi tempi) risultano premium ma comunque accessibili per una larghissima parte di clientela. Il vintage di Stussy è molto apprezzato, tra l’altro, specialmente se proveniente dall’era in cui il brand produceva ancora negli Stati Uniti e dunque, avendo un archivio simile a disposizione, perché altri brand non si lanciano in simili operazioni? La risposta è semplice: se si vuole avere successo nel secondhand bisogna giocare secondo le regole del pubblico. Ovvero prezzi bassi, flessibilità, scarsa istituzionalità: un po’ come i brand già fanno alle loro svendite private. Il mercato secondhand è nato per la convenienza del cliente finale e se diverse iniziative di vendere vintage “elevato” da parte dei brand di moda sono finite in modo poco soddisfacente è precisamente perché venivano applicati dei prezzi da boutique o quasi. Sicuramente, l’introduzione del secondhand ha sconvolto molti dei piani e delle prassi del lusso, denunciando il suo modo di operare come antiquato, a cui le generazioni nuove non rispondono veramente. Ad ogni modo, a giudicare da quanto si può vedere accadere a tutti i livelli della società, ormai, il futuro della moda sembra davvero essere di seconda mano e saltare sul treno del secondhand, in un modo che faccia contenti tutti, diventerà qualcosa di essenziale per tutti i brand - lusso incluso.