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C'è un problema con la Marvel

Non proprio come disse Scorsese ma quasi

C'è un problema con la Marvel Non proprio come disse Scorsese ma quasi

Dopo aver visto The Marvels, ultimo capitolo del più grande e dispersivo franchise della storia, si esce probabilmente soddisfatti ma con una curiosa sensazione addosso che potremmo definire straniamento. Giunti al 33esimo capitolo della saga cinematografica Marvel, non importa se la regista Nia DaCosta abbia fatto un buon lavoro, che il film abbia “cuore” e che il cast abbia chimica: è difficile prendere un prodotto Marvel sul serio nel 2023. Quando il film prova a essere tragico e sostenuto, si sa già che nessuno morirà e che il cattivo non ha una vera possibilità di vincere; quando prova a essere comico e leggero, rivela un’apparente mancanza di codici definiti e coerenza di tono che ricorda l’assurdo pastiche di Rick & Morty senza però quella meta-consapevolezza e quel cinismo amaro e che fanno di Rick & Morty un prodotto di culto. Le parti migliori del film sono senza dubbio le scene di Kamala Khan con la sua famiglia – ovvero quelle che riguardano personaggi “normali” e non sono girate contro un green screen. Una dimostrazione come i film Marvel abbiano irrimediabilmente perduto la loro relatability, la loro capacità di coinvolgere con  storie in cui possiamo identificarsi, la loro connessione col mondo: non è un caso se molte delle ultime release abbiano luogo nello spazio, tra pianeti e galassie, nè riguardino autentiche dinamiche umane di personaggi che, anche con costumi e superpoteri, rimangono effettivi esseri umani. Ora, The Marvels, come anche la seconda stagione di Loki e il terzo capitolo di Guardiani della Galassia, sembrano essere gli ultimi momenti felici di un impero sull’orlo del collasso. Come illustrato da Variety in un articolo-fiume di questa settimana e come raccontato ad nauseam dai molti critici anti-Marvel sul web, la magia sembra essersi esaurita. Ma perché? 

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Se alcuni indicano le ragioni della decadenza di Marvel in una questione di trend culturale («non è più tempo di supereroi» e via dicendo) la vera ragione è una semplice questione di matematica. Dopo aver costruito un modello di successo con l'Infinity Saga, i vertici dei Marvel Studios hanno pensato di allargare senza senso l’orizzonte della storia, passando da due film l’anno a sei release annuali, serie tv incluse. La frequenza di uscita di nuovi prodotti Marvel è diventata frenetica, la qualità dei prodotti finali è stata il risultato di una catena di montaggio del tutto asettica e impersonale, i protagonisti delle prime tre fasi della saga sono stati sostituiti da personaggi mai sentiti prima e che nessuno aveva davvero richiesto: Shang-Chi, gli Eternals, Moon Knight, Ms. Marvel, G’Iah – dopo Endgame l'universo Marvel ha smesso di essere familiare e si è riempito di estranei che dicevano di essere nostri amici. Di più: rimossa la dimensione della vita quotidiana degli esseri umani, quella in cui si muovevano lo Spider-Man di Sam Raimi e gli X-Men di Bryan Singer, non si fantastica più sull'avere questo o quel superpotere, nel cosa accadrebbe se si potesse diventare superoeroi nella nostra vita di sempre - che era anche la premessa originale di tutti gli eroi Marvel. L'elemento fantasy, divenuto generico e astratto in un fondale di green screen non è più aspirazionale ma è tanto generico quanto gli eroi stessi: tutti dotati della stessa superforza, degli stessi superlaser e della capacità di volare. Allargare troppo un mondo così interconnesso ha anche creato due ordini di problemi: quelli delle sceneggiature sempre più formulari e ripetitive, identiche tra loro a livello di tono e di fatto dimenticabili; quelli degli effetti speciali che sono arrivati a dominare così tanto ogni aspetto della produzione che i film stessi possiedono una patina quasi plasticosa, un aspetto da rendering digitale che ricorda i videogame portando lo spettatore fuori dal film quasi immediatamente. Voler produrre troppo ha portato i Marvel Studios a produrre peggio – meglio avrebbero fatto i vertici dell’azienda a concentrarsi su una narrazione più coerente e meno dispersiva ma soprattutto più ispirata e matura. 

Nell’ansia di coltivare una voce e un’estetica univoca attraverso trentatrè film diversi, i film Marvel sono diventati sempre più diluiti e generici. Non è un mistero che tutti i film Marvel subiscano pesanti ingerenze di uno studio preoccupato di impacchettare un prodotto di successo. Ma il fatto è questo: questo atteggiamento relega le uscite dell’MCU a semplice “contenuto” e “prodotto” e non si traduce in progetti dotati di unicità e autonomia artistica. Tanto più che per mantenere l’identità di una saga serve non disperderne i connotati narrativi: invece di darci due o tre protagonisti iconici, i Marvel Studios hanno inserito decine di personaggi dimenticabili, storie sconnesse, cronologie contraddittorie. Dopo la grande conflagrazione di Infinity War sarebbe stato bene ripartire da un nuovo piccolo nucleo centrale, costruire su una nuova e solida base e approdare alla Multiverse Saga (già di per sé caotica) con un passo più sicuro e un team di personaggi solido. Invece, l’identità dei vecchi personaggi è stata messa in dubbio e ridiscussa, quando non rimpiazzata nel caso di Captain America e Iron Heart; i nuovi personaggi presentati non hanno avuto seguito (pensiamo a Shang-Chi e agli Eternals, apparsi nel 2021 e poi spariti nel nulla) e in generale la pretesa di gravitas e serietà che esisteva fino alla Fase 3, quella di Infinity War, è andata perduta in una tempesta di randomness che ha destabilizzato il focus dei film: dai personaggi a caso che appaiono nelle post-credit scenes, tipo Harry Styles e Charlize Theron; fino alle contraddizioni macroscopiche come le decine di razze aliene tutte anglofone e identiche agli esseri umani e al fatto che i vari personaggi non sudano o sanguinano.

Un’atmosfera benpensante di fanservice, foreshawoding e nostalgia che proietta ogni film verso un ipotetico sequel senza chiedersi se il film che il pubblico sta guardando sia di qualità. Il successo dei film di Into The Spiderverse, un capolavoro indiscusso, viene precisamente dal fatto che non hanno niente di generico e “facile”: sono prodotti artistici seri, creati nel corso di lunghi anni di lavoro e dotati di un’identità precisa. I film, ovviamente, appartengono a Sony e non ai Marvel Studios e si nota molto l’assenza di una livella aziendale che ha appiattito tutti gli elementi della trama a un omogeneizzato facilmente digeribile.

Infine, non aiuta per nulla il fatto che questi prodotti mediocri non solo abbiano colonizzato il mercato cancellando i film mid-budget e avvelenando l’industria del cinema con una malsana ossessione del franchise, dei sequel e dei remake; ma anche che siano stati accompagnati da una serie di film e serie tv di contorno ampiamente mediocri che hanno esacerbato la noia che si prova verso il mondo dei comic book e le sue convenzioni. Culturalmente parlando, il diluvio di superhero movies è il principale indizio di un’epoca e di una cultura aziendalista (che non riguarda solo il cinema) in cui la qualità perde valore rispetto alla quantità, la sostanza retrocede in favore dei numeri. Non è un caso se i prodotti supereroistici più incisivi sulla cultura pop dopo Infinity War siano stati The  Boys e Invincible: storie che decostruiscono e a volte sbeffeggiano apertamente il genere e appaiono così rinfrescanti perché raccontano il nostro mondo, toccando temi come le culture wars, l’ascesa del fascismo, l’ossessione per i social media, i nepo baby, la tossicità della celebrity culture; mentre Invincible racconta questi super-eroi attraverso i loro drammi personali, approfondendo i personaggi in maniera onesta e sincera, e dunque creando una storia che si segue con meraviglia infantile ma che può essere presa sul serio sul piano psicologico, ci dice qualcosa di noi. L’era dei supereroi non è finita – è semplicemente arrivato il momento di richiamarli dallo spazio e farli tornare coi piedi per terra.