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L’impatto culturale dell’afghan coat

Un viaggio tra terre e culture diverse

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Da John Lennon a Janis Joplin, passando per Britney Spears fino a Olivia Rodrigo e a Bella Hadid, l’afghan coat torna ad essere oggetto del desiderio per la Gen Z e capo d’ispirazione sia per i designer, nella creazione delle collezioni presentate durante le fashion week, sia per i look street style delle celebrity. Quello che può presentarsi come un cappotto di pelliccia qualsiasi, in realtà, ha avuto un grande impatto culturale nella storia del costume e nell’identità di certe subculture, fino ad essere riproposto in varianti e costruzioni diverse nel corso del tempo. È solo un trend che persiste nella sua ciclicità, o c’è qualcosa di più?

 

Come nasce l'afghan coat?

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La storia dell’afghan coat ha origine nel Ghanzi, una città dell’Afghanistan: è ottenuto da un processo abbastanza lungo di conciatura di pelli di pecora, che sono sottoposte a lavorazioni tecniche per poi essere cucite e assemblate attraverso l’uso del filo cerato. Erano i contadini Afgani che indossavano principalmente questi mantelli, adatti al clima arido e freddo del territorio. L’afghan coat viene esportato per la prima volta in Inghilterra grazie alla brillante intuizione di Craig Sams, businessman britannico che, intercettando i gusti della nascente cultura hippie tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70, iniziò a vendere questi cappotti tramite note boutique di Londra come Granny Takes a Trip, al tempo definita “the first psychedelic boutique”. È proprio nella capitale inglese, luogo di trasgressione e di innovazione del costume per antonomasia, che i Beatles, all’alba del loro successo, scelsero di indossarlo: anche in questo caso “la sociology of celebrities” e il “copy effect” fecero il loro corso. L’afghan coat fu esso stesso parte di quell’effetto Beatles che molti ritengono esser stato fondamentale per lo sviluppo delle sottoculture giovanili degli anni ‘70, inserendosi a pieno titolo tra gli elementi significativi di riconoscimento della cultura Hippie.

Le mode che ritornano 

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Molti storici del costume e sociologi credono nella ciclicità della moda sostenendo che, in realtà, non esista nulla di completamente nuovo; in effetti molti “vecchi” capi vengono, per così dire, immaginati in altri contesti: ogni vestito è figlio del proprio tempo, perché è chi lo indossa a dargli senso e valore sociale. Negli anni 2000 ritroviamo l'afghan coat in molti look di Britney Spears, regina del teen pop e del y2k presa d’assalto dai paparazzi e dai fan. Un anno prima, Angelina Jolie lo indossa per Ragazze Interrotte, film di culto in cui l’attrice americana, co-protagonista insieme a Winona Ryder, interpreta la tragica storia di Lisa Rowe. Anche la moda ha portato in passerella l’afghan coat, diverse volte al centro delle collezioni dei più celebri designer. Non si può dimenticare la collezione Fall 2014 Ready to Wear di Prada e l’ossessione di Miuccia Prada per lo shearling, «l’opposto del ricco», per riportare le parole esatte della stilista in un’intervista con Tim Blanks su Vogue Runway.  In questa collezione, la lana incornicia i bordi di un cappotto, in contrasto con stampe geometriche su abiti in seta dai colori sgargianti ispirati ai costumi dei film di Rainer Werner Fassbinder, noto regista tedesco del movimento avant-garde degli anni 60. In quella iconica sfilata, Miuccia Prada è riuscita a destrutturare e riutilizzare, nella forma e nel significato, materiali come la lana di pecora o altri filati provenienti da epoche lontane, rendendoli intellettualmente “pradeschi”.

Shearling o afghan coat?

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C’è da fare una precisazione: lo shearling coat e l’afghan coat, che a primo impatto possono sembrare abbastanza simili, hanno un diverso processo tecnico di creazione e provengono da culture differenti. I primi traggono origine nella cultura occidentale e sono comunemente chiamati montoni: vennero indossati per la prima volta dai piloti d’aereo americani, poi comparvero addosso a James Dean negli anni 50 nel film Il Gigante, mentre oggi sono riproposti nel guardaroba maschile e femminile sia per un uso più formale e classico, sia in contesti più casual. L’afghan coat è invece associato a uno stile più bohemien: è un capo per certi versi meno strutturato, perciò non è di certo un caso che sia stato portato in voga per la prima volta dai “freethinkers” che, anche attraverso un certo modo di vestire e di rappresentarsi, tanto hanno lottato per valori universali quali la pace, l’indipendenza e la lotta al potere borghese e bigotto.

L'afghan coat in passerella

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Oggi l’afghan coat, che fa storcere il naso agli animalisti più appassionati e in particolare al gruppo PETA, i cui membri abbiamo visto protestare sulle passerelle durante le recenti settimane della moda, è un capo molto richiesto dalle nuove generazioni. Spesso preferiscono il vintage, una scelta sostenibile che sfida il grande problema del trattamento degli animali nell’industria della moda. Più recentemente, l’afghan coat è tornato ad essere desiderato da molte celebrities come Olivia Rodrigo e Zoe Kravitz: una scelta coerente con il ritorno dello stile della schoolgirl Y2K, un po’ Lizzie Mcguire, serie cult di Disney Channel, un po’ Phoebe Buffay, artista bohemien, spirito ironico e libero della serie Friends. Da Burberry a Diesel, il "Penny lane coat”, nome coniato dal cappotto indossato da Kate Hudson nel celebre film Almost Famous (Quasi Famosi), è stato declinato attraverso forme di styling e tecniche diverse che permettono al capo di trasformarsi, di essere oggetto di sperimentazione come nel caso delle pellicce in denim e lana di Diesel e delle mantelle tribali, per certi versi “preistoriche”, dell’ultima sfilata di Marni. Tutto questo accade in virtù del fatto che la moda dà la possibilità ai suoi creatori più liberi di spingersi oltre quella che sembra solo una tendenza di passaggio, ma che, in realtà, è per molti una ricerca storico-culturale dentro un passato che ritorna nel presente ogni volta con sembianze e nuovi significati.