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Siamo davvero pronti per una moda politica?

Sincerità e ipocrisia nell’era della post-verità

Siamo davvero pronti per una moda politica? Sincerità e ipocrisia nell’era della post-verità

Ieri sera, GmbH e i suoi founder e direttori creativi, Benjamin Huseby e Serhat Isik, hanno chiuso la Paris Fashion Week su una nota grave. In completa opposizione alla policy abituale della moda, riassumibile nell’ordinativo “annuisci e sorridi”, i due hanno aperto il proprio show con un messaggio politico, esprimendo il loro supporto per la Palestina, invocando un cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi. Lo show che ha seguito questo discorso di dieci minuti è stato conciso ma forse tra i più densi e sentiti mai organizzati dal brand, con una frenata della classica sensualità queer messa in scena dai designer in favore di capi decorati da significanti politici: le più notevoli erano sicuramente le giacche-kefyeh, i ricami eseguiti dai profughi nei campi del Giordano, i drappeggi sulle spalle che ricordano scialli da preghiera e il simbolo delle nazioni unite sulle felpe. La collezione era intitolata Untitled Nations e voleva porsi come una protesta contro il concetto di nazionalismo – il ritorno del quale, in tutto il mondo, rappresenta forse la prima risposta della società al diffondersi degli ideali multiculturalisti di cui i Millennial come i due direttori creativi si sono fatti portatori negli ultimi anni. Il tono dello show ha preoccupato alcuni: secondo Joelle Diderich di WWD, ad esempio, che ha definito lo show «un'esperienza straziante che ha illustrato il potere e la responsabilità di usare la moda come piattaforma politica», un certo bomber con diverse tasche ricordava la cintura esplosiva di un kamikaze e i mormorii dei modelli in passerella andavano contro «la stereotipizzazione e demonizzazione dei Musulmani» normalmente promossa dal brand. La sensazione non ha trovato particolare eco sui social, dove invece lo show è stato apprezzato anche grazie al vasto supporto che la causa palestinese ha nell’industria della moda. Da molto tempo non vedevamo i creativi della moda esporsi in modo tanto netto rispetto a una causa controversa.

Negli ultimi anni, specialmente a partire dal lockdown e dall’esplosione dei due movimenti Black Lives Matter e il Me Too, molti brand di moda hanno notato che l’affiliazione a certe cause politiche poteva migliorare la propria percezione e anche le proprie vendite. Inutile fare esempi: la moda ha scoperto nella promozione di cause liberali un nuovo canale di espressione, di beneficienza, di promozione e di vendite. Non di meno, nessun brand, quasi senza alcuna eccezione, ha mai aderito a cause davvero “calde” e controverse. In un’ottica sociale, è chiaro che il razzismo, la disparità di genere, l’inquinamento, la transfobia e l’intolleranza delle minoranze queer siano qualcosa di negativo: è molto facile, e per certi versi quasi scontato, dirsi a favore di una società tollerante e liberale, promuovere l’ecologismo e l’amore universale. Non è un caso se, a dispetto di quanto si creda, queste visioni politiche esistano immutate dagli anni ’60 e sostenerle significa solo promuovere un generico e intuitivo buon senso.

E anche un momento politico come lo show di Balenciaga nella neve, che commemorava le tragedie della guerra in Ucraina, non rappresentava un enorme sbilanciamento o presa di posizione politica: anche in quel frangente la divisione tra buoni e cattivi era chiarissima, e dunque schierarsi a riguardo non costituiva un vero rischio – anche a guardarla col cinismo di chi vede in ogni gesto dei brand di moda solo una promozione dissimulata. Diverso significato ha invece parlare a Parigi, e specialmente in una “sagra del privilegio” come può esserlo la fashion week, della difficile causa palestinese che coinvolge la coscienza di ogni cittadino europeo, tirando in ballo le posizioni personali di ciascuno su temi come l’immigrazione, la tolleranza religiosa, le mille contraddizioni del multiculturalismo, giudizi e pregiudizi storici, tendenziosi o meno che siano; ma anche istanze umanitarie, dinamiche contemporanee del dibattito politico. A prescindere da come la si pensi, era davvero tanto tempo che la moda, artisticamente intesa, non affondava il dito in una questione così viva, attuale, divisiva: dunque non c’è solo il quiet luxury.

@dazed @Dilara Findikoglu runway cameo at the @GmbH AW24 Men’s show in Paris #DazedFashionTV #TikTokFashion #GMBH #PFW #DilaraFindikoglu #runway #ParisFashionWeek You Look Lonely - Experiment - Undoing & 空の & The voice of the Void

La cosa potrebbe però non avere troppo seguito. Parlando dell’agitazione politica negli Stati Uniti, alle cui prossime elezioni si ripeterà uno scontro Biden vs. Trump, e in cui la divisione politica ha raggiunto forse un nuovo apice, un articolo di BoF dice che «la reazione dei conservatori e i segni di stanchezza del pubblico nei confronti di questo tipo di messaggi hanno aumentato il rischio di impegnarsi su temi come l'inclusività, il cambiamento climatico e i diritti LGBTQ. Una maglietta divertente ha meno probabilità di guadagnare punti con i giovani appassionati di moda e più probabilità di scatenare una copertura sfavorevole su Fox News e un boicottaggio». Ricordiamo che, quest'estate, la scelta di Bud Light di farsi sponsorizzare dalla donna transgender Dylan Mulvaney ha suscitato un tale contraccolpo da parte della base clienti del brand da mandarlo quasi in rovina e qualcosa di simile sta avvenendo con Disney al cinema e persino nella moda: sempre più aziende stanno segretamente facendo attenzione al monito "go woke, go broke" provando a non far arrabbiare nè i giovani attivisti che potrebbero suscitare shitstorm sui social, né i vecchi conservatori che invece hanno il potere di spesa per alimentare le vendite.

In breve, sia il pubblico si è stancato del farisaismo della moda, riconoscendone tutta la vuota ruffianeria; sia i rischi di vedersi boicottati, avversati o bersagliati da una certa fazione politica risultano sempre più spropositati, considerato come l'ascesa di credibilità di alcune fazioni (anche estremiste) ha reso pubblicamente accettabile dichiararsi a favore di ideologie politiche regressive o autoritariste, come nel caso delle tradwives o Andrew Tate, ormai quasi un guru degli adolesccenti; ma anche il ritorno di ideologie politiche autoritarstiche. La previsione, dunque, è che l’industria della moda preferirà non entrare nel merito, o comunque rimanere sul campo di battaglie facili da vincere per salvaguardare le vendite. Ma a questo punto cosa accadrà a quei brand che avevano dissimulato con le virtù politiche la povertà delle loro idee creative? La volontà di giocare sul sicuro e l’assenza di veri rischi creativi dovrebbero inaugurare un 2024 fatto di moda rassicurante e notizie assai allarmanti che verranno da tutto il mondo. In questo senso, e a prescindere da come la si pensi, la scelta di Benjamin Huseby e Serhat Isik dimostra che i due hanno fegato – e tanto ci basta per rispettarne la statura umana e lo spessore intellettuale.