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L'utopia di una moda a emissioni zero

La prima scarpa al mondo a zero emissioni di carbonio e altri miti da sfatare

L'utopia di una moda a emissioni zero La prima scarpa al mondo a zero emissioni di carbonio e altri miti da sfatare

Con gli stati europei in fermento per trovare un accordo comune in tema di sostenibilità e il Servizio meteorologico del governo degli Stati Uniti che ha registrato lo scorso 3 luglio “come giornata più calda nella storia”, la salvaguardia del pianeta è diventata argomento di dibattito quotidiano. In particolare nel settore moda è forse “impronta di carbonio” l’espressione più usata, sia da parte di chi, realmente allarmato, tenta di introdurre soluzioni sostenibili a lungo termine, sia da parte di brand che hanno fatto del greenwashing una nuova strategia di marketing collaudata. Ma che cos’è davvero il carbon footprint? L'impronta di carbonio della moda è la quantità di gas a effetto serra emessa da tutte le attività legate alla moda, tra cui la progettazione, la produzione, la spedizione, l'acquisto, l'uso, la pulizia e l'eventuale smaltimento dei vestiti. Allbirds, marchio di San Francisco noto per il suo design d'avanguardia per i runner, ne ha fatto di recente il proprio claim, dichiarando di aver sviluppato la prima scarpa al mondo a zero emissioni di carbonio, la sneaker Mo.onshot, aprendo un dibattito sulla possibilità effettiva di realizzare ex novo prodotti senza emissioni.

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Per sostenere questa dichiarazione, l'azienda ha utilizzato materiali che assorbono più carbonio di quanto ne emettano e ha ridotto il più possibile l'impatto del trasporto e della produzione. Ma effettuare i calcoli è difficile, poiché i dati sull'impatto ambientale della moda sono notoriamente scarsi e gli standard accettati per la contabilizzazione delle emissioni di carbonio sono ancora in evoluzione. L'audace affermazione di Allbirds pone il marchio all'avanguardia in un campo emergente e complicato, dove la scienza è ancora incerta, ma è impossibile con gli strumenti attuali confermare o smentire il claim. Ciò che è certo è che, secondo un rapporto pubblicato oggi dall'Apparel Impact Institute (AII), l'industria della moda è responsabile dell'1,8% delle emissioni globali di gas a effetto serra, una cifra significativamente inferiore rispetto alle precedenti stime, spesso citate, dell'8 o addirittura del 10%. Ma questo non significa che la moda sia fuori dai guai per le sue emissioni. Semmai, è necessario agire più che mai.

«Tutti i settori, e francamente tutti i Paesi, devono decarbonizzarsi: circa la metà entro il 2030 e zero entro il 2050» afferma Michael Sadowski, consulente per la sostenibilità e autore del rapporto Taking Stock of Progress Against the Roadmap to Net Zero. Lo studio si propone di fornire un aggiornamento della tabella di marcia verso l'azzeramento delle emissioni pubblicata dall'AII e dal World Resources Institute nel 2021 e di ispirare un'azione accelerata all'interno dell'industria della moda, anche evidenziando casi in cui le aziende che si sono impegnate a ridurre le emissioni stanno riscontrando risultati positivi. «Vediamo un aumento significativo dei materiali preferenziali e degli investimenti nelle energie rinnovabili e nell'efficienza energetica da parte dei gruppi industriali e dei marchi», afferma Sadowski. 

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Un problema, quello delle emissioni, strettamente legato al surriscaldamento globale, un tema che più che mai urgente dal momento che con 17,01 °C la temperatura media mondiale ha superato la soglia dei 17 gradi centigradi per la prima volta dall'inizio il monitoraggio nel 1976. Secondo BoF «È già "più probabile che non" che le temperature superino di 1,5°C i livelli preindustriali, il limite concordato a livello globale oltre il quale sarà difficile evitare i peggiori effetti del cambiamento climatico». Le aziende del settore  stanno già sentendo l'impatto delle condizioni climatiche estreme sulle catene di approvvigionamento delle materie prime, oltre che sulle vendite al dettaglio. Per rimanere entro una traiettoria di 1,5°C, tuttavia, è necessario che il livello di emissioni diminuisca entra il 2030 - fino ad almeno 0,489 gigatonnellate - piuttosto che aumentare. Ma Sadowski si è detto ottimista: «Almeno le aziende che fissano gli obiettivi si rendono conto che non è più possibile limitarsi a prendere un impegno. È necessario che a questo seguano investimenti reali, risorse reali all'interno».

Ciò che è certo è che i brand devono fissare dei traguardi realistici piuttosto che sensazionalistici, come nel caso di Gucci che si disse pronta a raggiungere le zero emissioni entro il 2030 prima di dover fare retro front poco dopo sulle proprie dichiarazioni di intenti. La maison si trovano oggi nella contraddizione di dover vendere per restare competitive e credibili, ma allo stesso tempo l'urgenza di prendere decisioni drastiche in termini di sostenibilità e trasparenza non può più essere rimandata e difficilmente può essere conciliata con la produzione su larga scala. Per ora la moda a 0 emissioni è ancora un'utopia.