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Tutti i brand di abbigliamento devono essere per forza anche brand di moda?

Lontano dai riflettori e dalle passerelle della fashion week, si nasconde un universo parallelo di brand Made in Italy

Tutti i brand di abbigliamento devono essere per forza anche brand di moda? Lontano dai riflettori e dalle passerelle della fashion week, si nasconde un universo parallelo di brand Made in Italy
Fabiana Filippi FW21
Bluemarine SS22
Bluemarine SS22
Bluemarine SS22
Bluemarine SS22
Bluemarine SS22
Bluemarine SS22
Bluemarine SS22
Bluemarine SS22
Franca Sozzani
Fabiana Filippi FW21
Franca Sozzani
Peserico FW21
Peserico FW21
Pinko FW21
Pinko FW21
Franca Sozzani
Franca Sozzani
Franca Sozzani
Franca Sozzani
Franca Sozzani
Franca Sozzani
Franca Sozzani

Sulla pagina delle novità della settimana di farfetch.com troviamo, al momento in cui scrivo l’articolo, un paio di pump in plastica di Amina Muaddi a 1.078 €, un paio di pantaloni di Christopher John Rogers a 1.324 € e una borsa a spalla di Prada a 1.847 €. Ovviamente per i più esigenti c’è anche un abito corto di Balmain a 18.686 € o un trench di Khaite a 12.445 €. D’altra parte, sempre sullo stesso sito, potete trovare un piumino nero di Pinko a 314 €, un cappotto in pura lana vergine Made in Italy di Fabiana Filippi a 980 €, un maglione girocollo lana/seta/cachemere Made in Italy di Peserico a 296 € o un abito di Twin Set a 224 €. Tutti brand italiani con una certa storia alle spalle che forse non vedrete indosso all'influencer du jour ma che fanno parte del tessuto stesso del Made in Italy. Pinko conta oggi oltre 200 negozi monomarca, la maggior parte dei quali diretti, e più di 1.000 punti vendita multimarca premium in tutto il mondo. Il brand, che nel 2019 ha totalizzato oltre 220 milioni di euro di ricavi e punta a raddoppiare il fatturato in 3 anni, realizza oltre il 50% del proprio giro d’affari all’estero, in particolare in Cina, Russia ed Europa. Fabiana Filippi, invece, con un fatturato 2019 di 95 milioni di cui l’estero vale il 75% del turnover complessivo, ha una distribuzione in 40 Paesi, con una fetta retail pari al 20% grazie a una presenza in 60 store tra Europa, Asia e America e una wholesale attiva tramite oltre 1.000 porte. Peserico, infine, produce circa 250mila capi a stagione, utilizzando più di duecento diversi tessuti, ed è distribuito in più di mille punti vendita nel mondo oltre ai venti monomarca e ha fatturato 80 milioni di euro nel 2019. 

Pinko FW21
Pinko FW21
Fabiana Filippi FW21
Fabiana Filippi FW21
Peserico FW21
Peserico FW21

Se vi state domandando perché questo articolo sta diventando terribilmente simile a una rubrica del Financial Times è perché volevo che fosse chiaro che esiste una fascia di marchi, spesso completamente Made in Italy, che non sono solo sani finanziariamente ma che godono anche di un forse poco sospettabile interesse da parte dei mercati internazionali ma nonostante questo non siedono nel consesso dei marchi riconosciuti, dei brand, dei riferimenti estetici generazionali né stanno al centro di nessuna discussione a sfondo culturale. Potete tranquillamente leggere fiumi di parole sulla sfilata di Gucci a Los Angeles ma dubito che esistano articoli approfonditi sull’esegesi della SS19 di Peserico. Del resto Peserico si racconta dicendo che «I colori caldi della terra si mescolano ai toni del cammello e al grigio ardesia realizzando tessuti soffici misti cashmere e madras garzati per dei cappotti avvolgenti». Pinko evita di raccontarsi e ci fa saltare a piè pari dentro l’e-commerce mentre Fabiana Filippi ci dice laconicamente che nel sito troveremo «una selezione di capi di abbigliamento e accessori solo sulla Boutique online e in Edizione Limitata». 

Franca Sozzani
Franca Sozzani
Franca Sozzani
Franca Sozzani
Franca Sozzani
Franca Sozzani
Franca Sozzani
Franca Sozzani
Franca Sozzani

Ora, non c’è niente di male nell’avere dei siti che sono degli e-commerce e ridurre a zero lo storytelling magari facendo attivazioni sui social ma qui il problema è più profondo e per capirlo bisogna andare indietro nel tempo, esattamente nel 1988 quando viene fondato il gruppo Blufin proprietario del marchio Blumarine e Franca Sozzani diventa direttrice di Vogue Italia. In quei tempi Vogue Italia era non solo un riferimento estetico ma un luogo di scambio valoriale, (a volte molto discusso per questa ragione) che aiutava marchi anonimi ma con progetti intelligenti come Blumarine a costruirsi un’identità avendo così un riconoscimento internazionale. Li aiutava dandogli spazio tra i brand blasonati, consigliandoli fotografi geniali, stylist straordinarie e spesso anche direttori creativi rivoluzionari. Questa ricetta ha dato valore non ad un marchio ma ad un intero sistema che, come avete letto sopra, è spesso costituito da una galassia di bei prodotti con poca narrazione e una gestione quasi sempre famigliare. Se state pensando che la differenza tra Balenciaga e Pinko non è solo valoriale ma anche qualitativa avete ragione ma così era anche per Blumarine che all’inizio era un marchio ben lontano dalla qualità e dalla media prezzi di Armani e Versace.

Bluemarine SS22
Bluemarine SS22
Bluemarine SS22
Bluemarine SS22
Bluemarine SS22
Bluemarine SS22
Bluemarine SS22
Bluemarine SS22

Ascoltare questo tipo di aziende, portarle attraverso una riflessione profonda e poi sganciarle come una bomba atomica sui mercati globali è un mestiere che fanno in pochi tanto che il revamp proprio di Blumarine è quasi esclusivamente nelle mani della über-stylist Lotta Volkova. I problemi collegati ai brand intermedi sono talmente tanti che in Italia, molto più che in ogni altro paese al mondo, provocano una duplicità schizofrenica nella moda che continua a non farci esaltare di fronte a Elisabetta Franchi e a farci considerare Marni il massimo della coolness. In parte è vero ma in parte si potrebbero fare molte cose per fare crescere la qualità del messaggio di queste aziende: aprire un dialogo tra loro e i giovani creativi italiani, dare loro visibilità in calendario grazie a progetti culturalmente rilevanti, spingerli verso collaborazioni internazionali eccellenti e soprattutto trovare, per ognuno di loro, una storia da raccontare che non li faccia sembrare più degli onesti copiatori o degli onesti produttori. Franca Sozzani purtroppo non c’è più ma l’Italia e l’Europa sono piene di nuclei di lavoro che traboccano di talento e che potrebbero essere uno dei motori della valorizzazione di questo segmento. Dietro questo magazine, per esempio, ce n’è uno molto nutrito e interessante.