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Luce e Ombra

Tra le tante storie legate alla March Madness, non si può non raccontare quella di Anthony Johnson

Luce e Ombra Tra le tante storie legate alla March Madness, non si può non raccontare quella di Anthony Johnson

Marzo soprattutto nel mondo “baskettaro” è sinonimo di March Madness, ossia il campionato di pallacanestro NCAA di Division I che rappresenta il massimo livello del basket collegiale americano. Da qui nascono le future stelle NBA che segneranno poi, forse, la storia del gioco. Spesso però ci sono delle storie, di giocatori, che non salgono al piano superiore. Ne ho scelto qualcuna che ci accompagnerà lungo questo torneo ad eliminazione diretta.

Due vecchi proverbi Zen recitano: «Questo momento é passato; non potrà mai essere vissuto di nuovo» e «Quando l’uomo rimane nella sua stessa ombra si chiede perché mai faccia buio». Ci sono dei momenti bui nella vita di ognuno di noi che segnano i momenti della nostro tempo e nel 2010 durante la Big Sky Conference, ossia uno dei campionati per accedere al torneo del grande ballo di marzo, la luce su di un ragazzo con la maglia numero 23 della Montana University si accese per davvero.

 

Anthony Johnson ha imparato a conoscere il buio all’età di 9 anni, quando il suo patrigno lo obbliga una routine del dolore provocato dalla cintura di quest'ultimo. Di solito la madre è sempre a casa, nei paraggi di quella stanza, per non far degenerare la situazione. Ma quel giorno non c’era lei a difendere il piccolo Anthony e la cintura arriva più volte alla schiena, allo stomaco, al collo ed infine al volto. A 9 anni, AJ subisce due interventi chirurgici e perde la maggior parte della sua visione dall’occhio sinistro.

 

Questo problema lo imprigiona in un rituale pre-partita che deve effettuare ogni volta che entra in campo. Deve inserire nell’occhio delle gocce particolari affinché non gli dia fastidio. Quando entrò nel Dee Events Center in Ogden, Utah, guardò il suo coach, Wayne Tinkle - che lo ha aiutato durante tutta la sua carriera come se fosse un padre - e sorridendo, gli disse: "Too much light hurts my eyes”. Perché nella Dahlberg Arena non erano abituati ad avere la luce dei riflettori addosso.

 

Arrivano sfavoriti all'incontro contro Damian Lillard ed i suoi Wildcats della Weber State University. A fine primo tempo, i Grizzlies erano sotto di venti, con AJ a soli 8 punti da quando era cominciata la partita. Il suo spogliatoio però era buio, buio come quei momenti che hanno segnato il dolore della sua infanzia. Usa la stessa luce che gli dava fastidio in campo per rinascere, ne segna 34 nel solo secondo tempo, splittando ogni raddoppio o ostacolo che la difesa gli proponesse davanti. Alzava la parabola contro il lungo Steve Panos come pochi al mondo. Damian Lillard, attuale stella NBA dei Portland Trail Blazers, lo ha inseguito per tutto i campo come Wile E. Coyote con Beep Beep.

Taglierà lui la retina del canestro come segno storico della vittoria, per poi abbracciare la madre su quel parquet illuminato come uno dei giorni più belli della sua vita. Non trovò mai la strada giusta per diventare un professionista, ma questa partita è entrata a far parte delle leggende della March Madness NCAA. Citando Édouard Manet: "Tutto ciò che viene privato della sua libertà perde sostanza e si spegne rapidamente. In una figura, cercate la grande luce e la grande ombra, il resto verrà da sé”, come i 42 punti di AJ in quella partita.