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Author Filippo D'Asaro
Artwork Timo Helgert
Production nss factory

Dall’organizzazione delle fashion week fino ritmi di produzione, la pandemia ha messo a nudo molti meccanismi vecchi o sbagliati, i cui cambiamenti sono stati procrastinati per anni. Oggi, l’industria si trova davanti a una svolta obbligatoria, che rivoluzionerà tanto il futuro dell’industria quanto il ruolo dei brand all’interno della società. Se lo scorso decennio è stato quello in cui la moda ha mischiato alto e basso, quello in cui sta entrando sarà il decennio in cui i brand saranno attori a livello culturale e politico.

Per quanto l’impatto della pandemia sull’industria della moda possa essere letto attraverso i numeri delle sue perdite economiche, i cambiamenti più rilevanti che lascerà saranno soprattutto di carattere immateriale.

“Ci sarà maggiore attenzione da entrambe le parti verso il valore reale e di lungo termine”
Luca Benini, fondatore di Slam Jam

I brand si trovano nel momento di massima esposizione mediatica della loro storia, i consumatori chiedono che si schierino su temi d’attualità, come è avvenuto per il movimento Black Lives Matter o per l’impegno verso la sostenibilità e l’inclusività dell’industria. Non bastano più proclami e non sono ammessi errori perché l’ecosistema digitale è pronto a punire molto più efficacemente di quanto non si facesse in precedenza, basti pensare alla débâcle di Dolce&Gabbana in Cina o alla vicenda del maglione blackface prodotto da Gucci.

In questo contesto, i prodotti diventano uno strumento per orientare il consumatore, mentre il brand rimane l’asset più importante di ogni company. Si tratta del principio della cross-settorialità, un processo iniziato grazie alle collaborazioni tra brand dentro l’industria (di cui forse l’esempio migliore è la collaborazione tra Louis Vuitton e Supreme del 2017) e che oggi ha evaso i confini della moda, coinvolgendo settori come quello dell’automotive, dell'arte anche della politica.

“Il prodotto finale sarà sostituito dai valori di un brand – i valori passeranno attraverso tutti i membri della comunità e non solo chi si interessa al mondo della moda”
Alessandro Poggi, direttore marketing di Uniqlo in Italia

La Gen Z non ha rinunciato alla lotta politica, ha solo cambiato i mezzi con cui questa viene combattuta e i brand - così come ogni loro manifestazione comunicativa - sono uno dei punto di riferimento più importanti per strutturare la propria voce. Indossare un capo o un marchio oggi è diventato uno statement culturale - a volte avvolto in layer di ironia - ma che comunque rappresenta per il consumatore una possibilità di auto-collocarsi all’interno della struttura sociale: i brand sono passati da simbolo di status sociale a strumento di espressione e strutturazione della propria personalità, contribuendo a ridefinire le categorie stesse del lusso.

“Tutti i brand che riusciranno ad impostare un dialogo rilevante con le persone - in un contesto in costante evoluzione - avranno un ruolo molto importante”
Luca Benini, fondatore di Slam Jam

Luca Benini ha vissuto in prima persona la nascita di community cresciute nel tempo intorno a brand come Supreme e spazi culturali come lo Spazio Maiocchi a Milano o il Dover Street Market di Londra.

Molti di questi cambiamenti culturali ed economici sono stati innescati dalla crisi finanziaria del 2008. La storia della moda e dei brand è infatti legata a doppio filo con questo tipo di eventi-spartiacque che hanno creato un prima e un dopo nella storia modificando radicalmente i valori e i gusti della società.

Prima della pandemia del Covid-19, altri eventi con un simile impatto furono la peste nel quattordicesimo secolo che contribuì alla nascita del lusso e l'influenza spagnola nel primo dopoguerra fu uno dei fattori principali che contribuì all’esplosione di creatività dei ruggenti anni ‘20.

La crisi del 2008 ha cambiato drasticamente l’industria della moda. Dal punto di vista economico i grandi conglomerati del lusso e i marchi di fast fashion hanno stritolato i medi e piccoli player. Dal punto vista culturale,invece, l’ingresso della Generazione Z nel mercato ha stravolto i valori alla base del concetto dil lusso, inaugurando una stagione di rimescolamento tra high-end e street fashion - un nuovo sistema di valori di cui il logo è stato il fulcro assoluto.

Questo cambiamento di priorità in Occidente, è stato affiancato dall’ingresso nel mercato dei consumatori cinesi - molto diversi da quelli occidentali per gusti e priorità - ma che ha offerto ai marchi di lusso europei la possibilità di crescere alla velocità della luce.

L'anno scorso, i consumatori cinesi hanno rappresentato il 35% del mercato complessivo del lusso, secondo un report di Bain & Company, mentre si prevede che entro il 2025 la quota di vendita di articoli di lusso alla clientela cinese salirà fino al 50%. Questi dati sottolineano come anche la geopolitica del mercato del lusso stia per cambiare irrimediabilmente: i brand dovranno adottare strategia comunicative e valoriali differenti a seconda del proprio mercato di riferimento (Cina, Occidente, India e Medio Oriente) cercando di non cadere in contraddizioni politiche e valoriali. Allo stesso tempo i brand assumeranno sempre di più il ruolo di interlocutori su questioni globali come il cambiamento climatico e l’organizzazione della supply chain. Già molti brand ad esempio hanno protestato contro le rappresaglie commerciali tra Cina e USA.

Secondo analisti ed esperti, il consumatore occidentale del mondo post-Covid 19 non sarà preso dal revenge spending ma diventerà più attento sia economicamente che sul piano dei valori che il brand in questione può offrirgli e in cui lui può o meno rivedersi.

“Il bilanciamento tra acquisto di impulso, del desiderio e della necessità sarà più equilibrato nei consumi futuri. Esistono e continueranno ad esistere i bisogni ed i desideri dei consumatori, ma saranno sempre più concreti, precisi ed esigenti”.
Alessandro Poggi, direttore marketing di Uniqlo in Italia

Il cambio di quotidianità causato dalla pandemia spingerà i consumatori a ricercare la qualità dei materiali, la sobrietà nel design e nelle palette di colori: la moda dovrà ridefinire il concetto di normcore partendo dalle esigenze più basilari.

In questo contesto il momento dell’acquisto è solo l’atto finale di un rapporto che inizia online nella maggior parte dei casi. Un buon esempio è la app ufficiale di Gucci: non si tratta di un e-commerce, offre invece all'utente la possibilità di provare in realtà aumentata alcuni capi ma anche lo svago dei videogiochi, in maniera complementare e non sostitutiva ai profili social del brand e di Alessandro Michele. In altre parole, si tratta di un'estensione che Gucci usa far immergere i consumatori nel suo universo.

Il negozio inteso come luogo fisico è uno dei maggiori punti interrogativi per i brand, in quanto potente strumento narrativo ed esperienziale, ma allo stesso tempo uno dei costi più inefficienti davanti al lockdown, unita alla crescita di un settore e-commerce che però è ancora lontano dal boom pronosticato da alcuni analisti.

Non tutte le esigenze racchiuse nell'acquisto di un gioiello o di un capo costoso vengono soddisfatte da una logistica semplificata e allo stesso modo brand di culto come Supreme, Palace e hanno costruito la propria identità intorno a luoghi fisici prima che virtuali. L’impatto del lockdown si è già fatto sentire su H&M che ha annunciato la chiusura di sette punti vendita in Italia, ma anche i brand del lusso stanno valutando che costi avrà il calo del turismo, soprattutto quello dalla Cina, visto che oggi sono la prima nazionalità per acquisti tax free sia in Europa con un quota del 34%.

Il ruolo di branding del retail fisico è ancora molto importante, ma che senso avrà per un brand come Louis Vuitton tenere aperti punti vendita in ogni aeroporto d’Europa o per Uniqlo avere punti vendita in ogni città?

Ascolta la playlist dedicato sul profilo Spotify di nss magazine.

Author Filippo D'Asaro
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