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Cosa resterà del calcio italiano?

La bruciante sconfitta contro la Macedonia del Nord potrebbe diventare ancora più drammatica se mal gestita

Cosa resterà del calcio italiano? La bruciante sconfitta contro la Macedonia del Nord potrebbe diventare ancora più drammatica se mal gestita

Il giorno dopo una delle peggiori disfatte della storia azzurra, paragonabile forse solo alla sconfitta contro la Corea del Nord nel 1966 o lo spareggio perso con la Svezia per gli scorsi Mondiali, è come sempre quello dei giudizi sommari, delle commissioni d’inchiesta srotolate sui social e sulla carta stampata. Tutti sono concordi che bisogna ripartire da zero, tutti sembrano avere la ricetta perfetta per sistemare il calcio italiano. Solitamente si parte dalle scuole calcio alle quote nazionali nei campionati professionistici - il mantra “troppi stranieri” ripetuto ormai quasi per noia - per poi arrivare alle accuse verso i calciatori che guadagnano troppo, che pensano solo ai social o ai vestiti alla moda.

Sono accuse pretestuose, lanciate più per cercare di dare una spiegazione razionale a una partita che di logico ha ben poco. Basterebbe far notare come la Francia al momento abbia una delle selezioni più competitive e profonde al mondo, nonostante si discuta molto di quanto la Ligue 1 non sia un campionato allenante o quanto i suoi migliori giocatori siano particolarmente attivi sui social e nel proprio self-branding. Allo stesso tempo la stessa Francia è uscita malamente da un Europeo che noi abbiamo alzato al cielo di Wembley solo otto mesi fa, battendo alcune delle migliori squadre continentali. 


Come diceva qualcuno, il calcio è strano ed a volte basta davvero poco (tipo un rigore segnato o sbagliato) per cambiare totalmente la traiettoria di un gruppo, di un CT, di un paese intero. Pochi sport sembrano legati come per un sortilegio a forze invisibili quanto il calcio, e la sensazione era che la Nazionale di Roberto Mancini avesse perso il favore delle divinità. Certo è impensabile pensare di essere stati eliminati dalle Qualificazioni Mondiali da una nazione che si avvicina a malapena alla popolazione di Roma e non aveva neanche i suoi due giocatori più conosciuti, anche grazie alla loro militanza in Serie A, come Goran Pandev e Elif Elmas.

Ma già l’idea di doversi giocare la qualificazione in Portogallo contro Cristiano Ronaldo e compagni ci faceva partire terrorizzati e battuti, come se la fiducia guadagnata a suon di grandi prestazioni e imbattibilità da record fosse evaporata. Quando temevamo i lusitani è arrivato il gol di Trajkovski, che a Palermo era di casa, a condannarci ad un finale anticipato, inaspettato quanto crudele. L’Italia ha perso la sua terza partita in quattro anni, l’ha persa alla prima conclusione degli avversari arrivata dopo novanta minuti di gioco e ciò è bastato per saltare il secondo mondiale consecutivo, questa volta con la beffa di farlo da campioni europei in carica.


Ora trovare un capro espiatorio per un disastro di tali dimensioni è anche troppo comodo e condannare un movimento che, tra tante indiscutibili difficoltà, è riuscita a coronare un 2021 magico per lo sport italiano ingiusto. Forse la verità è nel mezzo, l’Italia non è più quella potenza calcistica che ci ricordiamo nelle foto sgranate degli anni '70 o nelle VHS consumate durante le varie edizioni a cavallo dei due millenni, ma una squadra forte che può avere dei picchi altissimi e soffrire rovinose cadute. 

Il tempo cambia e il mondo va avanti, ingrandendo sempre più i propri confini sportivi fino a creare un panorama competitivo nel quale, se affermarsi è molto difficile, confermarsi risulta quasi impossibile. E l’unico modo per costruire cicli vincenti capaci di attraversare più di un singolo grande appuntamento internazionale è, paradossalmente, dividere processi e risultati. Evitare insomma un atteggiamento, quello sì molto italiano, di distruggere tutto quello di buono costruito finora come se tutte le innovazioni introdotte fossero fallimentari.

Il maggior problema è invece quello opposto, siamo rimasti cristallizzati, crogiolandoci troppo a lungo in una superiorità di tradizione e know-how convinti sarebbe bastata quella per rimanere in cima. Invece di innovare continuiamo a guardare indietro, invece di svecchiare moltiplichiamo le cariche onorarie e invece di costruire nuove strutture vincoliamo a strettissimi paletti quelle ormai obsolete. Roberto Mancini contro la Macedonia del Nord ha perso quando è venuto meno al credo che ha retto finora il suo ciclo in Nazionale, quello che lo ha portato a imporre le sue idee di gioco e uomini. Invece arroccandosi sulla difensiva, scegliendo sempre i suoi fedelissimi anche se chiaramente fuori forma e ruolo, ha tradito prima se stesso e poi tutti i tifosi italiani, che dovranno attendere altri quattro anni per tornare a sognare il Mondiale.