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I club hanno bisogno di un direttore creativo?

La nuova figura professionale che potrebbe definitivamente trasformare una squadra in brand

I club hanno bisogno di un direttore creativo? La nuova figura professionale che potrebbe definitivamente trasformare una squadra in brand

L’immagine di un brand è una delle cose più importanti, come se fosse un biglietto da visita istantaneo che comunica subito qualcosa. Vale per ogni settore: che sia la moda o il calcio, l’aspetto visual è centrale soprattutto nell’era in cui la brand identity è predominante. Le squadre di calcio - che si stanno lentamente evolvendo in brand - sono in ritardo su queste dinamiche. Basti pensare che spesso la comunicazione e la cura dell’immagine viene delegata ad agenzie esterne, esternalizzando una unit che va contro il concetto "every company is a media company". Nella moda, invece, l’immagine è al centro di ogni strategia e le figure di raccordo che la coordinano e la curano sono i direttori creativi, ruolo che nel corso degli anni si è evoluto ed è cambiato molto in base alle nuove esigenze dei marchi.

L’approccio al ruolo di direttore creativo nel settore della moda oggi è completamente cambiato: dagli stilisti tecnici che lavoravano al cartamodello e alla macchina da cucire, oggi il direttore creativo cerca di offrire una visione del mondo immateriale, interpretando il presente più che creandolo fisicamente. Una prova di questo cambiamento si vede dal background di più grandi direttori creativi del momento: Virgil Abloh ha studiato architettura, Raf Simons ha iniziato a disegnare mobili, Matthew Williams è entrato in contatto con la fashion industry da product manager dopo essere stato scartato dalla Parsons School of Design e Kanye West ha un background soprattutto musicale. Tutto ciò si traduce nell’idea che la contaminazione e la cross-settorialità sono le lenti più efficaci per affrontare la cultura contemporanea e allo stesso tempo offrire al consumatore un prodotto che abbia un valore simbolico prima che materiale. Anche se le dinamiche del calcio non seguono i ritmi della moda, è proprio nel momento in cui l’industria della moda si è aperta che ha ripreso centralità nel discorso pubblico. Allo stesso modo il calcio oggi rimane uno dei settori e sport più seguiti ma rimane un'industria poco reattiva all’innovazione estetica, dove - paradossalmente - c’è un underground creativo in fermento da anni e un mainstream (i grandi club) che ancora faticano a trovare un’identità visiva e comunicativa al passo con i tempi.

La figura di un direttore creativo all’interno dell’organigramma di un club di calcio sembra essere fondamentale per unire e far comunicare due settori che si stanno sempre di più avvicinando. La loro funzione non si limita alla creazione di concept di collezioni lifestyle, ma è molto più ampia. Un direttore creativo sportivo deve riuscire a sintetizzare e raccontare i valori di un brand (come nel caso della campagna "Buu - Brothers Universally United" dell’Inter), ispirare moodboard che diano materialità a ciò che si vuole comunicare (come nel caso di un canale dedicato solo alla streetwear attitude di un club).

Nonostante gli ottimi esempi di collaborazione tra società di calcio e brand - adidas x Juve o Jordan x PSG - o supplier - Thom Browne x Barça - gli ultimi esperimenti hanno dimostrato la necessità di una figura come un direttore creativo. Per evitare che le contaminazioni abbiano risultati alterni (come gli ultimi casi eclatanti delle collezioni autoprodotte della Juventus e del Barcellona) e soprattutto per schivare la possibilità di creare qualcosa senza identità con idee che sembrano estrapolate da altri contesti, i nuovi brand dello sport sono chiamati ad una vera e propria rivoluzione culturale. Una rivoluzione che può arrivare solo ed esclusivamente attraverso un "processo lungo, legato alla città e alla comunità" come ha spiegato Daniel Arsham, direttore creativo dei Cleveland Cavaliers, nell’intervista rilasciata in esclusiva a nss magazine. Non è necessario solo focalizzarsi sull’obiettivo finale come può essere una release, ma il direttore creativo deve riuscire a creare quei link extra settoriali che consentano al club di dare un’immagine esterna differente. 

Il mondo dello sport, ad oggi, offre casi negativi e positivi. Se restiamo oltre il calcio, la Ferrari del nuovo direttore creativo Rocco Iannone - ex Pal Zileri e con esperienze negli atelier di Dolce & Gabbana e Armani - ha lanciato la prima collezione moda con il marchio del Cavallino Rampante senza convincere più di tanto la critica, nonostante lo show di Maranello. L’esordio non eccezionale della Ferrari nel settore moda porta a pensare che non basta avere un direttore creativo per risolvere il dialogo tra sport e fashion e che la produzione di una collezione non basta per rientrare nel novero dei team che sfruttano la moda per completare la propria offerta. Per riuscire a dare valore all’heritage di un brand come la Ferrari - fatto di font, colori e palette - occorre essere in grado di raccontare, attualizzare e condensare gli elementi principali in uno show, senza per questo avere la pretesa di ispirarsi alle forme del design per disegnare vestiti.

Da un lato Arsham con i Cavs già abituato ad un mondo e ad un sistema americano che è l’habitat naturale per questo tipo di fusione, dall’altro una scommessa che non ha pagato i giusti dividendi nonostante le buone intenzioni ferrariste. Il primo compito di Arsham - che ha un determinato background che fonde armoniosamente design e moda - non è stato quello di creare una collezione o una collabo che cambiasse la percezione della franchigia dell’Ohio, ma riorganizzare l’immagine stessa della società partendo dai punti di forza della città (soprattutto il rock&roll) e valorizzando i messaggi che i Cavs vogliono veicolare attraverso il basket. Non essendoci certezza sull’esito dell’investimento, la domanda sulla necessità o meno di inserire una figura professionale come un direttore creativo resta lecita. Le esigenze dell’industria del calcio sono cambiate e dovrebbero cambiare anche le figure che lavorano al suo interno. Il mondo del calcio è per definizione conservatore e quindi restio a processi culturali che stravolgono quello che è considerato il normale flusso degli eventi, ma la spinta e l’esempio che arriva dal mondo della moda è più chiaro che mai.