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La libertà di parola nella NBA

Il tweet pro Hong Kong del gm degli Houston Rockets ha riportato a galla il mancato rispetto dei diritti umani

La libertà di parola nella NBA Il tweet pro Hong Kong del gm degli Houston Rockets ha riportato a galla il mancato rispetto dei diritti umani

Già coinvolte da numerose tensioni diplomatiche ben più importanti, Stati Uniti e Cina si sono ritrovate nuovamente contro per 'colpa' della pallacanestro NBA, che proprio in Oriente aveva da tempo programmato due tournée di pre-season, in Giappone a Saitama, in Cina a Shenzhen e Shanghai. Tutto è iniziato lo scorso 4 ottobre quando il general manager degli Houston Rockets, Daryl Morey, ha osato esprimersi attraverso un tweet a favore delle proteste da parte di Hong Kong. Un messaggio immediatamente cancellato, rapidamente seguìto rapidamente da un altro contenente delle scuse, dal quale in molti hanno subito provveduto a prendere le distanze ma che non ha evitato una serie di conseguenze impreviste. Su tutte quelle di aver riaperto il tema legato alla libertà di parola, i suoi limiti e le sue manifestazioni, che già in passato era stato affrontato da grandi stelle americane e su cui la lega aveva più volte rafforzato il proprio orientamento.

In Cina non hanno gradito affatto questa presa di posizione in un tema così scottante, non soltanto per l'imminenza delle gare amichevoli che vedranno protagoniste Los Angeles Lakers e Brooklyn Nets, ma anche perché proprio Houston, grazie ai tanti anni di militanza di Yao Ming nella franchigia texana, è una delle squadre più seguite in Cina, e quella che ha contributo maggiormente a far appassionare il popolo cinese al basket americano, coinvolgendo decine di milioni di nuovi appassionati e facendolo di fatto diventare il secondo sport più seguito nel Paese. E mentre dalla Cina hanno iniziato a mettere in atto un vero e proprio boicottaggio nei confronti degli americani (conferenze stampa annullate, partite rimosse dai palinsesti della tv di stato, ricchi accordi di sponsorizzazioni stracciati, gadget dei Rocket rimossi dagli scaffali degli store e un massiccio disinteresse da parte degli stessi fans nei confronti delle due sfide in programma), sull'argomento è dovuto intervenire il commissioner della NBA, Adam Silver.

Il responsabile della lega americana di pallacanestro si è trovato di fronte ad un vero e proprio bivio: provare a limitare i danni scaturiti dalla dichiarazione di Morey per tentare di salvaguardare gli accordi economici e il futuro dei rapporti tra NBA e i numerosi partner commerciali presenti in Cina (dove è presente il secondo bacino di tifosi più grande al mondo dopo quello americano, per un mercato globale che vale circa 4 miliardi di dollari) oppure ribadire i valori fondanti della cultura americana e non solamente sportiva, come quello della libertà d'espressione. E Silver ha chiaramente optato per la seconda:

"Voglio essere estremamente chiaro su questo punto: non intendiamo scusarci perché Daryl Morey ha esercitato il proprio diritto ad avere un’opinione. Quello che rimpiango è che ci siano tante persone deluse per quello che ha detto, compresi milioni di nostri fan. Non penso sia incongruente difendere la libertà di espressione, che riteniamo uno dei valori fondanti della nostra lega, e allo stesso tempo comprendere cosa provano i nostri partner. Spero che i nostri amici cinesi ricorderanno il nostro rapporto trentennale, tutto quello che abbiamo fatto in Cina per aiutare il diffondersi di questo sport. I valori di uguaglianza, rispetto e libertà di espressione hanno da tempo definito l'NBA e continueranno a farlo. Come una lega di basket con base americana che opera a livello globale, tra i nostri maggiori contributi ci sono questi valori del gioco. Le persone in tutto il mondo avranno inevitabilmente diversi punti di vista. Non è compito dell'NBA giudicare tali differenze o regolamentare ciò che le persone della lega scelgono di dire."

Il caso non si è esaurito con le parole del commissioner ma ha coinvolto tantissimi altri soggetti, chiamati in causa o inseriti autonomamente in questo dibattito internazionale: la stella dei Rockets James Harden ha provato a risolvere questo imbarazzo generale lanciando messaggi d'amore verso il popolo cinese; Dennis Rodman si è proposto come mediatore per risolvere la querelle, visti i suoi approcci recenti con il governo nord-coreano; Donald Trump invece si è subito schierato a difesa degli accordi tra Stati Uniti e Cina, accusando Steve Kerr, allenatore dei Golden State Warriors, e Gregg Popovich, coach della Nazionale, di non essere stati capaci di rispondere alle domande e di parlar male degli USA.

Nel frattempo, le contromosse del popolo cinese e i botta e risposta che inevitabilmente hanno condizionato la politica interna americana già divisa su tantissimi punti, non hanno impedito che il primo dei due match in programma si giochi regolarmente, anche se le conseguenze di questo caso internazionale sono ancora incalcolabili. Come sostenuto laconicamente da Joseph Tsai, co-fondatore del sito di e-commerce cinese Alibaba, "questo incidente ha provocato un dolore che impiegherà molto tempo per guarire", ma anni di politica di fan engagement non dovrebbero comunque essere compromessi dalla situazione che si è creata. Se non altro questo episodio ci conferma che ancora una volta è stato il mondo dello sport ad esprimersi per primo su temi delicati che spesso la politica, e i grandi capi di stato, non sono in grado di affrontare nella giusta maniera per paura di compromettere forti legami economici. Come successo qualche mese fa in occasione del caso Kaepernick, è stata la lega professionistica di appartenenza (in quel caso la NFL, in questo la NBA) a schierarsi pubblicamente in difesa dell'atleta, e non soltanto perché in possesso di suoi diritti (che negli sport americani non sono in mano ai club) ma per la necessità di sottolineare i principi da seguire, legittimando dunque i comportamenti di tutti i componenti della stessa a prescindere dagli interessi opposti in ballo.