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Che significa «Enshittification»? Perché tutto è peggiorato e cosa possiamo ancora fare per salvarci

Se esistesse un termine capace di riassumere lo spirito del nostro tempo, dovrebbe contenere in sé la paura, la stanchezza, il disincanto verso il futuro e la sensazione che ogni cosa,  dalle piattaforme digitali alle istituzioni pubbliche, si stia lentamente deteriorando. Quel termine esiste, ed è enshittification. Lo ha coniato lo scrittore e giornalista canadese Cory Doctorow, per descrivere la progressiva degradazione delle piattaforme digitali e, più in generale, del capitalismo tecnologico contemporaneo. 

Secondo Doctorow, il processo attraverso cui un servizio online si trasforma da promessa in delusione segue sempre lo stesso schema. All’inizio una piattaforma «è buona con gli utenti»: offre un’esperienza positiva, gratuita o economica, che attrae milioni di persone grazie alla sua apparente generosità. È la fase dell’entusiasmo, del «connecting people», dell’illusione di libertà. Poi, una volta consolidato il bacino di utenti, la piattaforma diventa «buona con i clienti aziendali»: modifica gli algoritmi, introduce più pubblicità, privilegia i marchi che pagano per la visibilità. È il momento in cui i feed si riempiono di contenuti sponsorizzati, le ricerche diventano meno trasparenti, i risultati organici vengono sepolti. Infine arriva la terza fase, quella più cupa: la piattaforma si rivolge esclusivamente ai propri azionisti e investitori, spremendo tutto ciò che resta di utile o piacevole per massimizzare i profitti. «A quel punto», scrive Doctorow, «l’esperienza si trasforma in una gigantesca pila di merda» sia per l’utente sia per il business. 

Dalla dipendenza digitale al lock-in

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Questa traiettoria non è casuale, ma il prodotto di una struttura economica precisa. Le piattaforme digitali operano su mercati «bifacciali», dove da un lato raccolgono dati e contenuti dagli utenti, dall’altro vendono visibilità e pubblicità alle imprese. Finché le due parti restano in equilibrio, il sistema funziona. Ma quando la piattaforma raggiunge una posizione dominante, l’equilibrio si rompe: gli utenti restano prigionieri dei propri dati e delle proprie reti sociali, mentre la piattaforma inizia a estrarre valore da ogni gesto. È ciò che Doctorow chiama lock-in, il meccanismo di dipendenza che ci impedisce di lasciare un servizio anche quando sappiamo che ci sta danneggiando.

Un tempo però esistevano barriere che frenavano questo declino. Le autorità antitrust, limitavano le concentrazioni di potere economico; aziende come IBM e Microsoft, negli anni Ottanta e Novanta, erano costrette a non spingersi troppo oltre per paura delle sanzioni. Anche i lavoratori del settore tecnologico avevano un peso morale: potevano rifiutare decisioni aziendali scorrette o dannose, perché la domanda di personale qualificato era altissima e i datori di lavoro non potevano permettersi di perderli. Oggi quell’etica si è indebolita, sostituita da una cultura della crescita infinita, sostenuta dai capitali di rischio e da una nuova élite di investitori che non si limita più a finanziare le aziende, ma pretende di indirizzare la politica e l’opinione pubblica.

Enshittification e il capitalismo digitale

La responsabilità, però, non è solo delle piattaforme o dei mercati. Gli utenti stessi, in nome della comodità, hanno accettato un sistema che li controlla e li sfrutta. Le stesse caratteristiche che rendono le app «intuitive»,  il clic immediato, la personalizzazione, il pagamento invisibile, sono tutte quelle cose che facilitano l’abuso. Doctorow lo sottolinea con forza al New Yorker: la nostra passività è il carburante dell’enshittification. Ci lamentiamo della pubblicità invasiva, dei contenuti tossici, della perdita di privacy, ma continuiamo a restare connessi e a consumare.

Eppure, nonostante tutto, alcuni segnali di inversione cominciano a emergere. Le nuove normative europee e britanniche, come il Digital Markets Act, impongono obblighi di trasparenza e interoperabilità alle grandi aziende tecnologiche, limitando la possibilità di abusare della propria posizione dominante. Come nota The New Yorker, queste regole, pensate per l’Europa, potrebbero avere un impatto globale, perché per una multinazionale è più semplice uniformare i propri standard a livello mondiale che sviluppare versioni locali differenziate. È una dimostrazione di come la politica, se dotata di coraggio e competenza, possa ancora influenzare la direzione del cambiamento.

Resistere all’Enshittification

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Doctorow suggerisce anche un’altra forma di resistenza, forse più radicale ma alla portata di tutti: smettere di alimentare le piattaforme che ci sfruttano. «Opting out» significa abbandonare i servizi che trasformano i nostri dati in profitto e sostenere alternative più eque, decentralizzate o cooperative. Non è facile. I social e le app sono diventati infrastrutture della nostra vita quotidiana, e immaginare di uscirne è come immaginare di vivere senza elettricità. Ma dei piccoli gesti come scegliere un motore di ricerca indipendente, sostenere software open source, ridurre il tempo passato su piattaforme tossiche,  possono diventare forme di dissenso culturale.

Alla fine, resta la domanda più grande: l’enshittification è solo un sintomo, o è la definizione stessa del capitalismo digitale? Doctorow propende per la seconda ipotesi. L’attuale sistema economico, sostiene, permette di spingere «la leva dell’estrazione» sempre più in là, senza alcun freno. Le logiche speculative della Silicon Valley generano un ecosistema in cui l’interesse immediato degli azionisti prevale su ogni altra considerazione, sia essa etica, sociale, ambientale. Fermare davvero l’enshittification significherebbe ripensare alla radice questo modello: non proprio una passeggiata.