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Troppo rasta per vincere

Dustin Brown, ritratto di un uomo unico

Troppo rasta per vincere  Dustin Brown, ritratto di un uomo unico

Allora, la storia è questa: c’è una ragazzo (che poi, tanto giovane – almeno per il tennis –, non è), che sembra Bob Marley, o almeno così tutti amano dire; fondamentalmente basta intravedere una vaga treccina, neanche un dread, per gridare al rastafari. C’è questo divertentissimo giocatore che pensa bene di battere Nadal al secondo turno di Wimbledon; uno che per anni ha sognato di diventare numero cento del circuito (non numero uno, ma numero cento). E c’ha provato girando con un camper regalato dai genitori mettendo da parte i soldi. Qualche anno fa,sugli stessi campi londinesi - molto generosi di personaggi e nuovi talenti - si fece notare per una spettacolare volè in tuffo, oltre che per la totale noncuranza con cui gingillava al cellulare nelle pause tra i diversi giochi o set: nella paranoica superstizione che avvinghia gli sportivi (i tennisti sono affetti poi da una forma alquanto angosciante), tra segni della croce mascherati, immancabili indumenti, posizione della borraccia al fianco della sedia, asciugamano richiesto a quei poveri ragazzi anche in assenza della benché minima goccia di fluido corporeo (costretti a reggere stracci zuppi di sudore altrui, che ridicola barbarie), non dovremmo lasciarci scappare un personaggio che se ne frega altamente.



Detto ciò, sarebbe non rendere merito al giocatore, non sottolineare che tra colpi circensi e caratteristiche avulse dal contesto tennistico, ci sia un talento, un talento evidente: il ragazzo gioca bene, quando vuole, gioca molto bene, anche se le tira tutte come se fosse l’ultima della sua vita(e molte gli entrano anche per questo). Sarebbe stato bellissimo potersi trovare nella testa degli organizzatori di Wimbledon alla prima richiesta di iscrizione di Dustin Brown al torneo londinese: “Ma ha i rasta?”.

Lunga vita a Dustin Brown, davvero. Si tratta di quei personaggi sinceramente simpatici, che fanno la cosa che riesce meglio o – addirittura – quella che più amano, senza pretese agonistiche o bulimia da primato ad ogni costo, che sia lecito – allenarsi 8 ore al giorno – o illecito – giocare un tennis noiosissimo. Se si fa una ricerca su Youtube con il suo nome, il termine più utilizzato per descrivere i suoi colpi è “matto”. Ma si tratta di una indegna semplificazione del personaggio e di ciò di cui ha dato prova. Brown è, al contrario, un giocatore i cui tratti tecnico-estetici sono facilmente individuabili, come individuabili sono i motivi per cui il suo miglior piazzamento nel ranking è stato il 78esimo posto (42esimo nel doppio). Fisicamente può reggere alcuni match, ma non un intero anno nell’attuale panorama tennistico, che chiede delle macchine e non dei giocatori; lui, al contrario, in modo ben più che evidente, non dosa mai lo sforzo – fa praticamente un salto ad ogni colpo, anche se non necessario, solo per dare spettacolo e poter esultare con il ginocchio destro alzato una volta fatto il punto.

Ha 33 anni, nel tennis tradizionale si sarebbe già ritirato, ma ha comunque una discreta predisposizione fisica che gli permette di conservare al meglio le proprie doti naturali. Si rende protagonista di un buon numero di aces, nel corso dei match, e questo spesso lo agevola negli incontri duri sotto il profilo atletico. Ma si tratta comunque di un giocatore che ha raggiunto il miglior risultato arrivando in semifinale a Montpellier, in un Master 250 - perdendo contro il meraviglioso rovescio ad una mano di Gasquet

Quando nel singolo match gli gira tutto bene, gli entrano tutti i colpi ed il suo avversario non può compensare il calo fisico con la prepotenza tecnica, allora Dustin rischia di portarsi a casa l’incontro, come ha fatto per ben due volte con Nadal – partite che lo hanno reso celebre, del resto. L’impossibilità di portare lo scambio oltre la decina di colpi – sempre sia lodato, alfiere contro la noia degli scambi infiniti – (che richiederebbe uno sforzo fisico fuori dalle proprie potenzialità, oltre ad una concentrazione che probabilmente a lui manca), lo ha portato a plasmare il proprio gioco verso un modello di servizio e corsa a rete, e di risposta aggressiva nel caso in cui non sia il proprio turno di battuta. E da questo non si sfugge, non ci sono possibilità di ammaestrare e normalizzare il proprio gioco – è il motivo per cui il serve and volley resta lo stile di gioco più spettacolare, anche se manifestamente dimenticato. Impone quella imprevedibilità che rende il grande giocatore grande ed il giocatore forte fisicamente un semplice straordinario atleta.

C’è una linea di confine tra il colpo ragionato e quello d’istinto (lo descrisse bene David Foster Wallace). In quella linea di confine si trova il serve and volley, in quella linea si trova lo spettacolo, in quella linea si trova il grande tennista. Il resto è semplice dedizione atletica, perseveranza, formazione caratteriale – tutte cose assolutamente degne e meritevoli, sia chiaro. Però, e nessuno ce ne voglia, una partita di qualche ora modellata sullo scambio da fondo continuo e ripetuto, è una tortura degna del Marchese de Sade. Ovviamente non pretendiamo giocatori competitivi e spettacolari, ma quanto meno di tutelare e ricordare quelli che di tanto in tanto ci fanno divertire. Quelli che si trovano nella linea di confine di cui sopra. E Dustin Brown ci entra di diritto. Ha dei colpi che dimostra di padroneggiare pienamente (anche delle lacune tecniche evidenti), colpi che, magari, avrebbero fatto grande un personaggio senza quei capelli, senza tutti quegli orecchini o quel tatuaggio gigantesco sul fianco. Quel personaggio, magari, sarebbe stato uno da top ten e da torneo dello slam vinto, anche più di uno. Sarebbe stato uno dei fab four degli ultimi anni, o fab six, seven; di quelli che hanno vinto tutto. Ma Dustin Brown non è così, e noi lo ringraziamo proprio per questo, perché la coppa se la portano a casa i giocatori, mentre il divertimento e lo spettacolo sono tutti per noi.