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La storia delle sneakers raccontata in "Golden Kicks"

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La storia delle sneakers raccontata in Golden Kicks  New Sport Side

Alcune delle storie sulle nostre scarpe preferite le conosciamo tutti. Altre sono più nascoste, più remote, e arrivano solo agli appassionati. Ci sono poi quelle fondamentali, che tracciano un percorso alla fine del quale ti accorgi di averci capito davvero qualcosa in più. In "Golden Kicks", libro edito da Bloomsbury, ci sono raccontate tutte le storie delle “scarpe che hanno cambiato lo sport”, come recita il sottotitolo. Abbiamo raggiunto l’autore, Jason Coles – una vita passata nello sport business – che ci ha parlato di come è nato il progetto, facendo luce su alcuni dei punti bui della storia e confermando le nostre credenze su altri passaggi essenziali. Quello che ne viene fuori è una specie di saggio in materia, ottima introduzione alla lettura del libro.


Ciao Jason, sono molto contento di averti qui. Mi piacerebbe cominciare chiedendoti come e quando hai deciso di scrivere questo libro?

Durante la mia carriera nello sport business, ho incontrato tante persone che hanno fatto parte della storia di adidasPumaReebok e ho sempre amato ascoltatore le loro storie su come alcune scarpe fossero state sviluppate o sugli atleti che le avevano indossate. In particolare mi colpì la storia dei fratelli Dassler, che diventarono grandi rivali fondando Puma e adidas. Col passare degli anni, e raccontando quelle storie, mi sono accorto che ai miei amici piacevano davvero molto, soprattutto perché la maggior parte di loro non aveva idea di dove venissero le loro scarpe preferite, questo mi ha dato l’incipit per cominciare a scrivere "Golden Kicks".

Il tuo libro è incentrato su quelle scarpe che hanno scavalcato le barriere dei loro cambi (che siano campi da basket, da tennis) per diventare parte della nostra cultura. Sulla base della tua ricerca, come credi che questo meccanismo funzioni?

Ci sono molti dibattiti su come sia successo, ma sembra che tutto sia cominciato negli Stati Uniti, dove lo sport è sempre stato una parte importante del sistema scolastico americano e della cultura dei più giovani. Fino agli anni ’50, era molto inusuale indossare scarpe sportive al di fuori delle strutture ad hoc, ma i giovani cominciarono a farlo semplicemente perché usare quelle scarpe gli garantiva maggior comodità. Questo provocava più di un’alzata di sopracciglia da parte delle generazioni più vecchie, rendendo le sneakers una sorta di simbolo di ribellione. Poi sono diventate in fretta parte delle “uniformi” della cultura giovanile, dalla beatnik degli anni ’60, al punk dei ’70 arrivando all’hip hop degli ’80. Erano un simbolo di differenza, ti permettevano di distinguerti dagli altri. Tuttavia, quando la corsa e l’esercizio fisico sono diventati parte della vita di tutti, quella situazione è cambiata e le sneaker hanno cominciato a far parte della vita di tutti, diventando parte del fashion mainstream.

 

Una delle migliori storie di sempre sulle scarpe sportive è quella di Jesse Owen, peraltro nato pochi giorni fa nel 1913. Tu hai scritto che "senza Jesse Owens non esisterebbe l’adidas", e anche noi su nss ne abbiamo parlato. Vorrei chiederti: qual è secondo te l’aspetto più straordinario di quella storia?

Secondo me la cosa più incredibile, considerato il periodo politico in Germania, fu il coraggio di Adi Dassler. Se Hitler o altri membri del Partito Nazista avessero scoperto che le scarpe con cui Owens aveva distrutto atleti tedeschi e ariani erano state fatte in Germania, credo che sul serio ora non esisterebbero nè Puma nè adidas (al tempo i due lavoravano insieme). La passione di Adi Dassler per lo sport e l’ammirazione che aveva per Owens erano così grandi che neanche le potenziali conseguenze della sua collaborazioni lo dissuasero dal suo tentativo.

 

In una intervista con Telegraph hai detto "cominciava a infastidirmi che la maggioranza della popolazione non sapesse nemmeno a chi fossero intitolate le Converse Chuck Taylor o le adidas Stan Smith", e l’ho trovata una frase drammaticamente vera. È palesemente l’altra parte della medaglia dell’evoluzione mainstream delle sneaker. Credi possa diventare una minaccia per questa cultura?

Viviamo in un’era in cui la nostra fascinazione per le celebrità implica che Kanye West o Rihanna possano vendere più scarpe di Messi o di Serena Williams. Fino a qualche tempo fa non era così, e sì, da un certo punto di vista credo che questo possa danneggiare la “nostra” cultura, perché può far dimenticarne le origini sportive e gli eroi. Tuttavia la passione che esiste per i modelli classici come le prime Jordan, le Stan Smith, le Puma Suede ad esempio, non è mai stata cosi grande e questo mi rende ottimista perché questo patrimonio non venga perso.

In Italia, specialmente nel calcio, stiamo vivendo un periodo di “nostalgia” molto forte, quasi senza precedenti, in parte a causa dello scarso appeal della Seria A. Quanto è stata, ed è, importante la nostalgia nella diffusione delle scarpe sportive?

La nostalgia è ancora importantissima e anzi resta il fondamento della cultura sneaker. Tanti dei giovani che sono cresciuti tra la fine degli anni 70, inizio anni 80 - quando lo sportwear ha cominciato la transizione verso lo streetwear – ancora amano calzare quegli stessi modelli. Quello che è interessante è che anche le ultime generazioni hanno cominciato a seguire quel trend. Le vecchie Jordan non sono mai state così popolari, anche se tanti degli attuali fan sono abbastanza giovani da non aver mai visto Michael Jordan giocare. A Londra ad esempio non ho mai visto così tante paia di Superstars o di Stan Smith ai piedi di under 20. I grandi brand sono stati davvero intelligenti a cogliere questo trend e rinnovare quei modelli con nuove e fresche collaborazioni. Un ottimo esempio è la recente collaborazione tra Nike SB Blazer x Supreme. Un modello molto classico della Nike, che viene da basket anni ’70, riproposta per lo skating in una maniera che può fare solo Supreme.

 

La relazione di Jordan con la Nike ha ovviamente cambiato tutto. Ma dopo quella, quale pensi sia la più importante rivoluzione nella storia della sport’s culture? Io direi Ronaldo…

Sono d’accordo, la relazione tra Ronaldo e Nike è stato certamente un momento chiave, ma in termini di scarpe da sport dell’era post-Jordan e relazioni che hanno avuto un forte impatto credo che sia difficile non guardare alle adidas Predator. L’idea di una scarpa da calcio che garantisse un controllo di palla avanzato fu esplorato già negli anni ’60, ma il design che l’ex-Liverpool Craig Johnston ha sviluppato fu il primo che veramente funzionò. Adidas lo prese e lavorando con le sue star del tempo, Zinedine Zidane e David Beckham lo affinò. I calciatori erano in grado di controllare e giocare la palla come mai prima, e molti dei gol più spettacolari visti ad Euro 2000 venivano dai piedi di giocatori che calzavano Predator. La scarpa fu importante anche perché fu in grado di resuscitare l’adidas. Nei primi anni ’90 infatti la compagnia era in ginocchio e retrocessa dietro Nike e Reebok. La Predator ebbe un impatto così grosso da aiutare l’adidas nel suo comeback e restaurare la loro reputazione di innovatori.

 

Quanto i grandi eventi, come le Olimpiadi, hanno avuto (ed hanno ancora) un impatto nella diffusione delle scarpe sportive?

Come si legge anche in "Golden Kicks", i Giochi Olimpici sono stati testimoni di alcuni dei più grandi momenti nella storia delle scarpe sportive. Da Jesse Owens fino a Usain Bolt, le scarpe che gli atleti hanno calzato durante i Giochi hanno rappresentato pinnacoli per la tecnologia sportiva. Allo stesso modo in cui le recenti corse d’auto hanno potuto godere delle innovazioni della Formula 1, alcune delle scarpe che indossiamo hanno beneficiato dell’innovazione olimpica. Le Nike gold di Michael Jonhson indossate durante i Giochi di Atlanta del 1996 ne sono un classico esempio. Al tempo c’erano i materiali più leggeri mai prodotti e quello che la Nike ha imparato lavorando con quei materiali ha impattato sul resto della loro linea produttiva. È anche vero che tante delle scarpe più popolari oggi hanno guadagnato la loro popolarità propro alle Olimpiadi. Non tutti sanno ad esempio che le Converse All Star Chuck Taylor hanno vinto sette medaglie d’oro ai piedi del team USA di basket.

 

Rispetto ad altri sport, per le scarpe da calcio è stato più difficile imporsi anche fuori dagli stadi, anche se Nike sta ultimamente lavorando in quella direzione. Stai seguendo quel trend?

Fino a quando il calcio sarà giocato sull’erba (che, come nel caso di Wimbledon, spero sia per sempre!) non credo che i calciatori professionisti si separeranno mai dai loro scarpini. Nonostante Nike abbia prodotto qualche modello, come le Magista, che assomigliano più a scarpe da running che da calcio non credo che vedremo presto Ronaldo indossarle contro il Barcellona! Il calcio ha bisogno dei tacchetti!

Passando invece a parlare delle sneaker da basket, appena le si nominano, tutti pensano (giustamente) alle Nike Jordan. Ma, negli anni ’90 anche la Reebok ha avuto un ruolo preponderante nel gioco ed è stata la principale contender al trono (penso soprattutto alla tecnologia Pump). Ci racconti una storia sulla Reebok..

Sfortunatamente tanti di noi hanno cominciato a dimenticarsi della Reebok dopo l’acquisizione da parte dell’adidas, ma durante gli anni ’90, per un certo periodo, Reebok aveva detronizzato Nike diventando il migliore brand di sneaker al mondo. Quello che l’aveva portata fin lì era stato il “girl power”. La Freestyle della Reebok era uno dei pochi modelli al mondo disegnato per le donne, e quando la mania per l’aerobica conquistò gli States la Freestyle monopolizzò il mercato. In pochi anni Reebok diventò il brand più dominante d’America, ma senza una buona posizione nel basket, dove la Nike la faceva da padrone. Si fecero sotto allora con scarpe come la Shaq Attack, la Shaqnosis, The Question (di Allen Iverson) e, ovviamente, la Pump. La Pump era estremamente innovativa al tempo grazie al fatto d’essere la prima scarpa a permettera a chi la indossava di aggiustarsi il fit della scarpa da solo. Conquistò le prime pagine dei giornali durante lo Slam Dunk Contest del 1991 quando Dee Brown dei Celtics pompò lo sue scarpe di fronte a milioni di telespettatori prima di ogni schiacciata, il che rese le Pump il fenomeno della serata.

 

Quello del collezionismo sta diventando negli ultimi anni un vero e proprio feticismo (anzi, un vero feticismo). Come valuti personalmente questo fenomeno? È qualcosa che rischia di “contaminare” la cultura?

Personalmente è qualcosa che sono contento accada. Le scarpe sportive significano così tanto per così tanta gente, sono parte e ci ricordano i nostri migliori anni, sia atleticamente che socialmente. Sono pezzi d’arte indossabili, apprezzate sia dalla tecnologia, dal fashion che dai collezionisti. Qualche tempo fa sono stato da Crepe City a Londra, e sono rimasto scioccato dall’enorme numero di persone presenti e dall’entusiasmo che trasmettevano. Però, c’è un aspetto triste ed è quello dell’aumento dei costi che sta, quello sì, contaminando la cultura. Vecchie paia di sneaker vengono ora vendute su Ebay per migliaia di euro, con il solo fine di guadagnarci quanto più possibile. Le persone che hanno fatto carte false per le ultime release di Yeezy o Supreme assomigliano più a piccoli imprenditori che a veri appassionati.

 

L’Italia, specialmente grazie a Diadora (e alla sua lunga partnership con il calcio, di gran lunga lo sport più diffuso) ha rappresentato una grossa parte della storia delle sneaker. Credi che la predomianza del calcio sia un limite allo sviluppo di una sneaker culture nel nostro paese?

Questa è una domanda interessante a cui posso risponderti dicendo che in Inghilterra la predominanza del calcio ha invece aiutato la diffusione della sneaker culture piuttosto che frenarla. È diventato molto fashion calzare trainers (che è come chiamiamo le sneaker in UK) alle partite e brand italiani come Diadora e Fila sono diventati un marchio distintivo. I fan erano orgogliosi del loro aspetto quanto lo erano delle vittorie del loro team e quando viaggiavano per le coppe europee ritornavano in Inghilterra con le ultime collezioni italiane. 

Ultima domanda, la più difficile: qual è il tuo personale podio di scarpe sportive, e perché?

È veramente una domanda difficile, ma sono preparato! Ho un podio ben definito sia per questioni storiche che personali. La prima è sicuramente l’adidas Superstar. È stata la prima a ufficializzare il crossover tra sport e fashion, partita come scarpa da basket ma diventata fulcro dello street fashion newyorkese negli anni ’80 quando è stata “ritirata” dal parquet. È ancora stilosissima e mentre stavo scrivendo "Golden Kicks" ho trovato un nuovo amico in Chris Severn, l’uomo che insieme a Horst Dassler, ha contribuito a crearle.

La seconda è la Nike Air Jordan 1. Non è la più bella scarpa sportiva di sempre, e quando fu rilasciata non era neanche particolarmente innovativa, ma rappresenta uno dei più impotanti momenti nella storia delle sneaker perché, come dicevi, ha cambiato tutto. Ha cambiato il basket, ha cambiato la Nike e le relazioni tra brand e atleti.

L’ultima è la più difficile da scegliere, ma andrò con le Converse All Star. È la “madrina” di tutte le scarpe sportive e nonostante  compirà 100 anni nel 2017 è ancora bella da indossare, e mi fa impazzire il fatto che tutti, dagli 8 agli 80 anni, ancora la calzino.